“La barca in panna nel meriggio assolato“

Domanins e le sue origini
Lasciando la Selva alle nostre spalle e il camposanto alla propria sinistra, proseguendo poi per via Meduna si giunge nel centro di Domanins. Il paese conta circa ottocentottantadue abitanti. Descriviamone anzitutto la sua piantina geografica. Dopo centocinquanta metri si arriva in piazza Indipendenza e subito dopo si passa in piazza San Michele Arcangelo con la chiesa parrocchiale e il campanile. Al termine della piazza comincia la via Belvedere – storicamente chiamata “Viale Belvedere” o semplicemente “il Belvedere” – arteria centrale del paese dalla quale si diramano le altre strade e località. La via Belvedere termina a nord-est confluendo nella via del Sile di Rauscedo.


Poco prima di piazza Indipendenza, voltando a destra si entra nel Borgo Leone altra borgata di Domanins composta da due sole strade: via Ferruccio Obberhoffer (già via Regina Margherita) e via Borgo Leone. Le due strade si incrociano per poi condurre il visitatore verso Arzene del comune di Valvasone Arzene.
Da piazza San Michele, invece, girando a destra si prosegue per via San Martino ove si trova l’edificio delle vecchie scuole elementari “Aristide Gabelli”, inaugurata nel il 18 marzo 1962, negli ultimi utilizzato come sede delle associazioni del paese.

La via Belvedere prosegue diritta, sul tracciato della Provinciale Pordenone-Spilimbergo, fino a confluire nella via del Sile dove comincia la frazione Rauscedo. Sul suo percorso si dipartono due strade laterali a destra: via dei Raggi e via S. Valentino. A sinistra si diparte via Cianeis mentre oltre, la strada si allarga in quella che parecchi decenni fa era la piccola piazza della località Claut e a sinistra si stacca la via della Pace che porta alla via S. Giovanni a Rauscedo. In fondo a questa strada si stacca a destra via Pineta che unisce via della Pace alla strada del Belvedere, chiudendo a triangolo l’area dove sorgeva il vecchio mulino di Domanins.
Il paese di compone di quattro zone: il centro; la Selva, il Borgo Leone, il Claut. Se si eccettua la Selva che è in posizione staccata, le altre due borgate sono continue con il centro del paese. Ciascuna borgata ha un proprio capitello di preghiera e devozione nel quale, almeno nel recente passato, venivano recitati i rosari nei mesi mariani.
Questa è la Domanins di oggi. Vediamo ora il passato. Le sue origini certe risalgono al Basso Medioevo. Il villaggio di Domanins è documentato per la prima volta, nel 1123 quando alcune terre della “villa Dominik” sono lasciate dal duca Enrico IV di Carinzia all’abbazia di St. Paul in Lavanthal: “…in Foroiulii…7 hobe in villa Vivar, due in villa Dominik …”. L’etimologia del nome è tuttora incerta. Per taluni, Domanins è la forma latina di Domini ecclesia o di domus domini. Per altri, il nome deriva dal ladino Dominium o dall’eponimo Dominicus. Nelle forme tedesche il nome è “Dominik” o “Tomanis“, in quelle friulane è invece “Amanins” o “Omanins“, in modo tale che la particella “de” sottintesa si riferisca a “villa”, ossia “villa di Omanisio”. Domanins appartenne all’antichissima pieve di San Giorgio (“plebem S. Georgei”). Dal 1077 divenne parte del Patriarcato di Aquileia dal punto di vista civile, e dalla Diocesi di Concordia da quello spirituale. Domanins fu una delle quindici parrocchie appartenenti all’antica pieve e riconosciute dal Vescovo Gerardo (1177).
La parrocchia di San Michele Arcangelo in Domanins nacque nel 1479. Da un documento conservato in diocesi, risultò che prima di tale data la cura delle anime fu affidata ad un unico parroco per Domanins e per il vicino paese di Rauscedo. All’epoca la parrocchia beneficiò del giuspatronato col quale usufruì del diritto di scegliersi il proprio parroco. Tale beneficio rimase in vigore fino al 1972.
Napoleone, uscito vittorioso dalla battaglia condotta nei territori della Pieve di San Giorgio il 16 marzo 1797, cedette all’Austria quel territorio che prima appartenne alla Repubblica di Venezia. I privilegi feudali degli Spilimbergo scomparirono e, nel 1806, l’imperatore francese, divenuto re d’Italia, instaurò il regime dei comuni e Domanins divenne dapprima parte del comune di San Martino al Tagliamento, cantone di Valvasone, dipartimento di Passariano (1807), per poi diventare definitivamente frazione del comune di San Giorgio (1811). Nel 1818, con il ritorno della dominazione austriaca, fu confermata l’istituzione comunale; furono altresì introdotte le province e Domanins rimase sotto San Giorgio.
Il camposanto: la memoria della terra e degli avi
Prima di arrivare al centro del paese di Domanins entriamo a visitare il camposanto. Il cimitero è il luogo dove si incrociano le innumerevoli storie individuali e collettive di una comunità nelle quali si può leggere tutto, il suo passato e il suo presente: le guerre, le carestie e le pestilenze, i notabili, le famiglie importanti, i sacerdoti della parrocchia, gli artisti, la plebe. Inoltre, le tombe riportano anche le foto di famigliari o parenti mancati all’affetto nelle terre lontane dell’emigrazione.

Tomba di padre Aldo Giustiniano Babuin
Percorrendo il viale centrale del camposanto, nella parte vecchia, fino in fondo giungiamo alla cappella ove sono sepolte le salme dei parroci e i nomi dei pievani più recenti, coloro che esercitarono il mandato sacerdotale nell’arco del secolo precedente. C’è anche un altare dedicato a padre Aldo Giustiniano Babuin, frate francescano vissuto da missionario in Guatemala del cui vale la pena soffermarsi sulla sua vita.
Padre Aldo Giustiniano Babuin è stato un religioso di Domanins. Nacque a Domanins il 22 aprile 1921 e fin dalla tenera età manifestò la volontà e l’entusiasmo nel praticare la vita religiosa. A quattordici anni entrò a far parte del Probandato Antoniano di Lonigo, in provincia di Vicenza. Compì il suo noviziato a S. Pancrazio di Barbarano e il 17 settembre 1940 emise la sua prima professione di fede e servizio davanti a Frate Modesto Bortoli, Ministro provinciale. Seguì la professione solenne a Gemona del Friuli il 17 settembre 1946 e l’ordinazione a sacerdote il 27 giugno 1948, a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Al termine di quell’anno, Padre Aldo confidò al suo Ministro provinciale il desiderio di partire per le missioni. Era un desiderio forte che maturava in lui sempre di più. Ogni anno rinnovava al suo superiore il suo proposito finché anche per lui arrivò il suo momento tanto agognato.
Nel 1951 fu benedetta la “Croce del Missionario” durante la Giornata del Missionario che venne celebrata la prima domenica di maggio con la consegna del crocefisso ai missionari in partenza per il Centro e il Sud delle Americhe. L’anno successivo, nel 1952 durante il giorno dell’Immacolata, Padre Babuin partì per il Guatemala e giunse a Patzùn nel dipartimento del Chimaltenango. In questo paese latino, il frate italiano vi rimase fino alla morte. Il 25 giugno 1992, il presidente della Repubblica del Guatemala gli conferì l’onoreficenza Orden Francisco Marroquin per i meriti da lui acquisiti nel campo formativo-religioso, educativo e sanitario a favore delle popolazioni.

Padre Aldo Babuin si adoperò al fine di dare un’educazione scolastica a tutta la popolazione senza discriminazioni di natura etnica, religiosa o di ceto sociale; costruì il Collegio San Bernardino e il suo centro ricreativo; costruì e ricostruì altri edifici dopo il terremoto del 4 febbraio 1976; diede luce inoltre ad un asilo infantile, ad un orfanotrofio e infine all’ospedale Corpus Christi. Da Domanins ci fu qualche volontario che passò a trovarlo e ad aiutarlo nelle sue opere e nei suoi lavori, come la costruzione di una pompa per l’approvvigionamento di acqua in un villaggio.
Nel 1979 Padre Aldo avevo preso la cittadinanza guatemalteca per sentirsi più unito alla popolazione locale e indigena. Di lui, dopo la sua morte avvenuta il 12 dicembre 1998 dissero così: “Non è facile descrivere la sua umiltà, l’amore la prossimo, la semplicità, la generosa dedizione profondamente umana al benessere del nostro popolo, doti con le quali ha portato a termine la sua opera”.

Tomba di don Gallo Baldassarre Moschetta
L’ultimo della lista fra i sacerdoti è “Don Baldassarre Gallo Moschetta” dal 1932 al 1972 che balza subito all’occhio per la longevità del suo mandato. Parroco per quarant’anni, don Moschetta guidò la parrocchia e le anime dei fedeli attraverso una guerra mondiale con i suoi drammi e catastrofi e il dopoguerra con i radicali cambiamenti sociali, nella cultura e nei costumi. Certamente è stata una delle figure più importanti per la vita della comunità di Domanins che merita numerosi cenni e una parte del viaggio incentrata su di lui.
Sito dell’architetto Luigi Pellegrin
Prima della cappella dei pievani e del crocifisso collocato davanti nel mezzo del cortile, sulla destra si nota un sito particolare e dedicato, posto a lato di una cappella di famiglia. Un alto roseto cresce a ridosso del muro mentre ai suoi piedi è collocata una pietra in marmo bianco dalla forma rettangolare e accanto ad essa una targa illustrativa. Gli oggetti poggiano su una lamiera di ferro collocata sopra un’aiuola quadrata composta solo da piccoli sassi. Sulla pietra è riportata la dicitura “LUIGI PELLEGRIN ARCHITETTO 1925-2001”. Sulla targa c’è scritto: “Questa pietra scelta da Luigi Pellegrin tra gli scarti di una cava per la sua bellezza e per il suo significato, conservata fino alla sua scomparsa nel suo studio romano, viene qui posta dagli studenti e collaboratori a ricordo del maestro di vita e di mestiere.” Subito sotto, sono riportate le parole dirette di Luigi Pellegrin: “Per me l’architetto non è una figura professionale, è un’entità scelta dal gruppo sociale per visualizzare e costruire il livello di qualità raggiunto da quel gruppo.” “Luigi Pellegrin Courcelette 21-4-1925 Roma 15-9-2001”.

Chi era l’architetto Luigi Pellegrin? Francese di nascita e romano d’adozione, Luigi Pellegrin è stato uno degli architetti italiani più noti a livello internazionale. Dalle origini famigliari di Domanins, questo celebre artista fu figlio di Paolo Pellegrin di Domanins e di Brigida Fornasier di Rauscedo. I suoi genitori emigrarono a Courcelette nel nord della Francia, un piccolo paese vicino alla Somme, una provincia martoriata dalle due guerre mondiali, dove il 21 aprile 1925 nacque Luigi. Il padre Paolo fu falegname e carpentiere. Fu lui per primo a trasmettere al figlio la passione per l’architettura. Luigi studiò e visse a Roma dove si laureò alla Facoltà di Architettura. Negli anni cinquanta, dopo un viaggio in America, venne a contatto con le opere di Louis Sullivan e incontrò Frank Lloyd Wright formandosi secondo i loro canoni. Al suo nome sono tuttora legati molti progetti importanti di uffici, scuole e complessi residenziali per tutto l’arco del secondo dopoguerra. Nel 2000 è stato insignito del Premio alla Carriera dall’Ordine degli architetti di Roma.

Alla sua morte, avvenuta a Roma il 15 settembre 2001, l’artista volle che le sue ceneri fossero seppellite nella tomba della madre. All’entrata principale del camposanto, girando subito a destra si incontrano sul muro le lapidi dei suoi genitori: Paolo Pellegrin e Brigida Fornasier. Sulla lapide del padre è stata posta una targhetta recante il nome di Luigi e sulla lapide della madre il nome della sorella Caterina, ove entrambi fecero deporre le proprie ceneri.
Nel settembre 2005, due allieve di Luigi Pellegrin donarono alla comunità di Domanins una pietra in marmo bianco che l’architetto custodì sempre con sé. Fu una pietra che Pellegrin trovò in una cava e che lui disse che “gli ricordava il suo amato Friuli”. Per volontà della famiglia, la pietra fu portata in cimitero di Domanins. Tale pietra rassomigliava nella forma alla sua terra e l’architetto la volle collocata all’aperto. L’azione dell’acqua piovana e dell’umidità sul colore e sull’aspetto esterno del marmo imprime su di essa le tracce dell’ambiente, la sua forma e la sua essenza. È un piccolo modello di land art ossia una creazione artistica “organica” che si fonde e si interseca mirabilmente con l’ambiente naturale in cui è nata e con il paesaggio circostante, quasi a formare un unico organo. E il letto di sassi in cui poggia la pietra proviene dal torrente Meduna in modo tale da riprodurre i tratti di quel lembo del Friuli in cui Luigi Pellegrin nacquero i propri avi.
Il collocamento della pietra fu preparato dall’amministrazione comunale. Il 16 dicembre 2005, l’evento fu inaugurato con il convegno di autorità locali e di personalità del mondo intellettuale e accademico italiano. Autore dell’evento fu l’assessore Francesco Orlando di San Giorgio, studioso di architettura e grande estimatore di Luigi Pellegrin. Fra gli invitati ci furono Luca Zevi – figlio dell’architetto e urbanista Bruno Zevi amico personale e professionale di Luigi Pellegrin – e il giornalista Furio Colombo allora direttore uscente del quotidiano nazionale “l’Unità”.
Nell’aprile 2017, al fine di arricchire e ampliare il suo significato, la pietra in memoria di Luigi Pellegrin è stata ricollocata in un sito più adeguato, ornata con i simboli della sua professione e della sua terra di origine. Il signor Orlando coinvolse la comunità di Domanins attraverso i donatori di sangue e realizzò lui personalmente l’attuale sito.
Bisogna ricordare che Luigi Pellegrin, come molti di Domanins e del Friuli è figlio di emigranti. Francese di nascita e romano d’adozione ha sempre avuto a cuore la terra delle sue origini. E questo non è solo un valore affettivo. Esso introduce il tema degli emigranti e le emigrazioni, uno dei filoni più importanti della storia del Novecento del Friuli al quale Domanins dedicò un monumento. Se noi pensiamo alle sue concezioni architettoniche secondo le quali la mano dell’uomo è tesa a modificare e a rispetta la natura e l’ambiente circostanti, possiamo immaginare come in lui abbiano agito gli istinti e le sensibilità famigliari nel ricordo e nella visione della terra di origine, povera e magra ma sacra nel suo grembo. E riconoscendo tutto ciò, Luigi Pellegrin ha voluto onorarci con il suo essere qui accanto ai suoi compaesani per dirci che lui è stato “uno di qui”, uno di noi.

Notiamo soltanto la foto di un ragazzo sulla tomba di Luigi Tondat. E’ il figlio Marco Tondat le cui ossa riposano nel cimitero di Cordovado dove risiedeva. Il povero Marco morì giovane a nemmeno quarant’anni compiuti a causa di un attentato terroristico avvenuto a Dacca nel Bangladesh il 1° luglio 2016.
L’attacco portava la firma di fondamentalisti musulmani appartenenti all’I.S.I.S. la nota organizzazione politico-integralista e militare. Un gruppo di giovani terroristi fece irruzione in un ristorante frequentato da imprenditori italiani tra i quali lo stesso Marco. Il giovane friulano assieme alle altre vittime fu ucciso dopo una lunga tortura. Pochi giorni dopo si tenne il funerale nella sua cittadina pordenonese dove aveva vissuto. Folta e addolorata fu la partecipazione. In rappresentanza del comune di San Giorgio della Richinvelda giunse il sindaco Michele Leon e in rappresentanza di Domanins, paese dei suoi genitori, partecipò la sezione dei Donatori di sangue A.F.D.S. con il loro labaro sociale. Il gruppo formato da questi generosi volontari – come vedremo durante il viaggio – fu sempre nella sua storia custode dell’identità del paese e della memoria delle sue tradizioni, degli antenati e dei suoi figli.
Il centro storico e religioso
Domanins con i suoi manufatti religiosi e artistici, con le sue case e i palazzi risalenti al Rinascimento e anche al Medio Evo, e con la tranquillità quotidiana del traffico stradale, si può paragonare ad una nobile decaduta.
Per raggiungere il centro del paese usciamo dal cimitero e ci dirigiamo a sinistra verso via Meduna. Percorrendo via Meduna incontriamo Piazza Indipendenza. All’angolo tra via Meduna e via Oberhoffer si trovava l’antico pozzo. Una poesia di Pier Paolo Pasolini ricorda questo grazioso manufatto.”Bianca barca/nel mare giallo e verde/del sole, Domanins si perde. Una vecchietta/gira al pozzo la ruota/nella piazza vuota. Timoniere/di quella barca in panna/la vecchietta s’affanna, persa nel lume/giallo e verde del sole /Rintoccano le ore.”

E’ una descrizione che ritrae alla perfezione il paese come in un affresco a muro. Nelle aiuole di Piazza Indipendenza, l’associazione dei donatori di sangue del paese nel 2016 collocò una targa con l’iscrizione della poesia, a ricordo della figura importante del poeta friulano che compose tanti versi dedicati ai paesi vicini alla campagna natia. Oltre al grande poeta friulano che omaggiò questo paese con i suoi versi risalenti al 1948 esiste un’altra poesia composta qualche decennio prima, nel marzo 1917, dal professor Luigi Michielon di Portogruaro, figlio di Domenico e di Filomena Lenarduzzi di Santo “A Domanins”:
“O Domanins, a cui rasente scorre / povero d’acque, dal ghiaioso letto, / l’ampio Meduna, il mio pensiero corre, / al tuo ricordo, ai dì che giovanetto, /nella stagion che i frutti si usa côrre, / a ritrovar venìa con gran diletto i miei parenti. L’aguzza tua torre, la bianca chiesa, il chiaro ruscelletto / che a lato scorre della strada, i prati / verdi e i bei campi fertili nel core / risuonar mi fan l’eco dei passati / felici giorni. Or rimpiango quell’ore / ed i parenti alla vita strappati, / che i loro cari lasciaron nel dolore”.
La piazza è un’area verde che si estende con aiuole e con vialetti composti di sassi e delimitati da un muretto. Dietro di essa, si trova la canonica che introduce il viandante alla borgata Borgo Leone, a destra di là della strada si trova un edificio abitato dove un tempo sede della Latteria Sociale Turnaria e poi dei Donatori di Sangue, a sinistra è delimitata dalla gelateria Il Gelataio, mentre alle nostre spalle c’è il Sottosopra Bar, i due locali che animano gli assolati pomeriggi della “bianca barca” silenziosa e immobile.

Il Monumento ai caduti
Il manufatto più datato si trova nella piazza verde è il Monumento ai caduti, opera che ricorda i caduti di tutte le guerre, per prima la Grande Guerra del 1915-18 e poi la seconda guerra mondiale 1940-45 nei fronti europei e africani (Eritrea, Etiopia, Libia). Il monumento è stato realizzato nel 1921 dallo scultore Mario Sarto di Bologna (1885-1955) su iniziativa dei reduci e inaugurato a Domanins il 2 luglio 1922. In origine l’opera fu collocata in Piazza San Michele Arcangelo nell’area antistante la chiesa ed era circondato da un recinto con agli angoli quattro bombe aeree.
L’opera scultorea fu fortemente voluta dall’Associazione Nazionale Combattenti (A.N.C.) sorte a migliaia dopo il termine del primo conflitto mondiale. La Grande Guerra, combattuta sul Carso e nella trincea aveva condotto i giovani soldati italiani a sacrifici immensi e impensabili per le generazioni attuali. Ma anche la popolazione civile fu provata dalla realtà della guerra. Il Friuli e parte del Veneto subirono nell’ultimo anno 1917-18 la durezza dell’occupazione austro-tedesca, in seguito alla rotta del fronte a Caporetto. E così anche i paesi della Richinvelda sperimentarono le conseguenze della ritirata dal fronte con il continuo passaggio di truppe sulle strade e sui propri terreni con gravi danni e soprusi.
Tra i fanti in ritirata ci fu anche lo scrittore toscano Ardengo Soffici. E proprio il paese di Domanins fu da lui citato nel suo libro “La ritirata del Friuli” del 1919. Trovandosi in servizio a Domanins dopo la ritirata da Caporetto, il Soffici scrisse: “Questa visione di sfacelo e di carnaio mi sbigottì mi riempì di un profondo sconforto. Inoltre tra questo orrore v’erano gruppi di soldati senza ufficiali, disarmati, stanchi e affamati che camminavano alla rinfusa, processioni di profughi tutti quanti avvolti in una colonna di polvere che non finiva mai“. Nella sua opera citò anche il caso di un soldato fucilato per diserzione sul sagrato della parrocchiale di S. Michele Arcangelo.

Esiste una fotografia bella e suggestiva che ritrae un gruppo di popolani di Domanins nel giorno del 4 novembre 1918 alla notizia pervenuta in paese della fine delle ostilità e della liberazione delle terre dagli asburgici e dai tedeschi. La notizia fu comunicata da un ufficiale a cavallo che proveniva da Vittorio Veneto. La foto è stata scattata davanti alla villa De Bedin nella piazza attigua di S. Michele Arcangelo.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, le città e i paesi si arricchirono di luoghi dedicati alla Grande Guerra combattuta nelle trincee: parchi, strade, viali del ricordo, della “rimembranza” in memoria di un conflitto che ha irredento terre abitate da italiani e dominate dallo straniero e che lasciò molte vittime sui campi di battaglia. L’opera è in marmo bianco e rappresenta un fante di trincea quale simbolo dei nostri combattenti e del loro eroismo. Il soldato italiano appare povero e spoglio di tutto ed è fiero del proprio sacrificio e di avere al suo fianco la Statua della Vittoria. La memoria di guerra divenne orgoglio nazionale per una guerra vinta e volontà di riscatto per i territori promessi e non mantenuti. La guerra, il sacrificio e la morte vennero ad assumere un significato nuovo nel quale l’uomo stava alla morte come il singolo al collettivo e poi all’infinito. Il giovane soldato esprime nel volto la sofferenza e il sacrificio così come la virilità e lo spirito combattentistico. La vita e la realtà avrebbero assunto un senso e uno spazio più ampi da cui la vastità dei sacrari militari in cui riposano le migliaia di caduti dove l’orizzonte prefigura l’infinito. E alle spalle del monumento vi è infatti il muro dell’infinito, costruito con i sassi del Tagliamento, esso rappresenta la nostra terra e la moltitudine dei giovani caduti per la Patria sul campo di battaglia.
L’Associazione Nazionale Combattenti costituì una sezione a San Giorgio della Richinvelda nel 1924 e a Domanins si formò una propria e autonoma sezione il 23 luglio 1926. Il 2 ottobre 1927 fu officiata la cerimonia solenne di benedizione della Bandiera dell’Associazione Nazionale Combattenti e la signora Amabile Lenarduzzi Franceschina, maestra di Domanins, fu la Madrina del Tricolore.
Dopo il secondo conflitto mondiale, fu volontà dell’Associazione Nazionale Combattenti – che da allora mutò il proprio nome in “Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – sostituire la lapide in marmo con sovrascritti i “nomi di tutti i caduti di Domanins di tutte le guerre, nelle quali fu impegnata la nostra amata Patria”. E nel 1954, l’opera fu restaurata grazie alla generosità della popolazione di Domanins che diede offerte per L. 112.800. Col terremoto del 1976, il Monumento fu parzialmente danneggiato dai sismi di maggio e settembre.
Negli anni successivi, il suo stato di degrado era aumentato in modo notevole. Collocata a ridosso della strada antistante la chiesa, il Monumento risentiva del transito intenso dei mezzi pesanti della provinciale. Perciò si fece strada nel paese, e in particolare nel consiglio parrocchiale, di spostare il monumento in un’altra area del centro del paese. La chiesa necessitava anche di un marciapiede e di un posto per i parcheggi. Davanti a questa importante decisione la popolazione si suddivise. Si levarono molte voci in reazione alla novità della proposta, prime fra tutte quelle degli stessi reduci di guerra. Data l’importanza della questione nella quale Domanins si divise in favorevoli e contrari, il consiglio parrocchiale di amministrazione, nel 1984 chiese il parere generale da parte della popolazione attraverso un referendum. La consultazione fu indetta al fine di decidere riguardo allo spostamento del Monumento dal luogo originario, condizione primaria per la conservazione e per un successivo restauro.
La votazione si tenne domenica 18 novembre nelle aule dell’ex asilo dell’infanzia. Su 321 votanti, risultarono 171 Sì contro 148 No e 2 astenuti. Favorevoli e contrari si comportarono un po’ come due tifoserie di calcio, con gli sfottò verso chi aveva perso il referendum e con ognuno di loro i propri luoghi di ritrovo. La notizia di una consultazione popolare a Domanins fece il giro della provincia. Il giorno successivo il Gazzettino pubblicò un articolo. “C’è una forte minoranza!”. Tuonò uno degli sconfitti.
A causa della maggioranza risicata, dell’astensionismo elevato e degli animi esagitati (ci fu chi giurò di sparare se il Monumento fosse stato spostato) il progetto fu accantonato. La maggioranza dei favorevoli e il consiglio parrocchiale rinviarono la questione. Troppo esiguo era il margine di vittoria dei favorevoli e troppo bassa era stata l’affluenza alle urne per poter dare esecuzione al progetto di spostamento. La popolazione si comportò, in ogni caso e in ogni discorso, portando sempre un grande rispetto per i reduci i quali erano quasi tutti contrari allo spostamento.

Tale questione fu risollevata anni dopo proprio dai combattenti. Il 7 maggio 1999, il sodalizio organizzò un’assemblea popolare nelle aule della vecchia scuola materna con la partecipazione del parroco don Franco Zanus Fortes e il sindaco Sergio Covre. Furono presentate quattro diverse proposte che furono discusse e votate. Prevalse la decisione di spostare il Monumento nell’area verde di Piazza Indipendenza, ritenuto il luogo più consono per l’afflusso della popolazione e per le celebrazioni di rito. Il Monumento fu spostato e restaurato solo nel 2002 con solenne cerimonia officiata il 3 novembre. Esso fu collocato in Piazza Indipendenza, ove si trova tuttora.
Le storie degne di menzione fra i caduti di entrambe le guerre mondiali, di militari e civili sono numerose. Vogliamo qui riportare le più significative:
Per quanto riguarda la Grande Guerra durante i mesi dell’occupazione austro-tedesca (ottobre 1917-novembre 1918), un triste destino fu riservato per Augusto Lenarduzzi, morto a causa del disinnesco di una bomba. La sua sconvolgente storia è degna di essere menzionata. Augusto ebbe questo incarico dal giovane ufficiale ungherese Tivadar Lenarduzzi, ossia suo cugino, figlio di un impresario di Domanins emigrato in Ungheria. Il giovane soldato ungherese domiciliò a Domanins dalla zia Maddalena. Tivadar si fece “consegnare” il cugino Augusto, esperto artificiere, per impegnarlo nel disinnesco delle numerose bombe rinvenute nel terreno, salvandolo così dalla morte o dalla deportazione. Sfortunatamente, il 3 gennaio 1918, Augusto rimase colpito a morte dalle schegge di un ordigno.
Degna di narrazione fu anche la storia di Janos (Giovanni) Lenarduzzi padre di Tivadar. Janos aveva un’impresa edile in Ungheria. Nel 1915, all’entrata in guerra dell’Italia, le autorità gli avevano imposto di trasformare la sua attività in produzione di armamenti. Janos si era rifiutato perché non voleva contribuire alla guerra contro i suoi connazionali. Aveva perciò deciso di vendere le sue proprietà come prestito di guerra. Ma i titoli ben presto si inflazionarono e Janos preso dallo sconforto fu affetto da ictus e, affranto dal corso delle cose, l’anno successivo si sparò alla testa con un colpo di pistola.
Fra i combattenti della seconda guerra mondiale a Domanins si registrarono 26 caduti (compresi i dispersi e i civili) e 39 prigionieri internati in campi da lavoro e di concentramento, di cui 25 nei lager della Germania o negli altri territori occupati al di fuori dell’Italia.
I morti e dispersi nella campagna di Russia furono: Edoardo Babuin a Nikolajewka; Guido D’Agostinis, Luigi Piccoli e Antonio Pancino a Nowo Georgewka; Celeste De Candido a Tarnowka; Gabriele De Candido sul fiume Don; Osvaldo Tondat a Rossosch; Luigi De Monte, Umberto Turbian e Giobatta Venier in località imprecisata; Antonio Lenarduzzi a Selenyi Jar, sepolto nel “quadrivio di quota 153” le cui ossa furono recuperate e rimpatriate solo nel 1992 e tuttora conservate in una cassetta nella tomba di famiglia con solenne cerimonia svoltasi l’8 novembre.

Giuseppe D’Agostinis e Antonio Marchi morirono nell’affondamento del Galilea il 28 marzo 1942. Le spoglie di Giuseppe furono recuperate solo nel 1954. Si salvò invece Alfredo Infanti che allora abitava a San Martino al Tagliamento e che qualche anno dopo la fine della guerra si sarebbe per sempre trasferito a Domanins.

Luigi Bisutti, Arbeno De Candido, Angelo Roncadin morirono nei Balcani. Mattia De Candido perì in Etiopia durante la campagna d’Africa nel 1936. Arturo Zuliani fu disperso a Trieste, probabilmente ucciso dai partigiani perché militò nella Repubblica Sociale Italiana. Maria Cancian e Maddalena Franceschina morirono da civili, la prima in Italia e la seconda in Eritrea.
I deportati nei campi di concentramento furono: Cisto D’Agostin rinchiuso a Wohnlager IX Ferdinand a Danzica, poi liberato e vittima di un incidente ferroviario; Felice De Candido finì nel Lager 11 Watenstadt nel Braunschweig (Germania); Domenico Drigo fu catturato a Bad Lieben-Werda (Germania); Mario Lenarduzzi a Friedricschafen (Germania); Oliviero Spadotto a Petersdorf (Germania); Olivo Lenarduzzi a Weidab in Sudan. Costante Basso e Sante Santin furono arrestati dalla polizia militare tedesca e poi liberati.

Una storia particolare è stata quella di Romano Babuin. Romano Babuin (detto Sante) fu internato a Mauthausen-Gusen III nel febbraio del ’45 e poi liberato dagli americani il 5 maggio dello stesso anno. Abitante allora a San Martino al Tagliamento, fece parte dell’8° Reggimento Alpini durante la Campagna di Grecia, nel 1941 viene inviato a Plezzo, lungo il fronte jugoslavo, a difesa dell’allora confine orientale. Dopo l’armistizio del 1943, riuscì a sfuggire alle truppe tedesche compiendo la traversata del massiccio del Canin, raggiungendo la Val Raccolana e da qui rientrò a San Martino al Tagliamento.
A seguito dell’occupazione tedesca, Sante scelse di militare dell’Esercito di Liberazione, entrando a far parte della divisione partigiana Garibaldi “Mario Modotti” dal 3 maggio 1944 fino al 20 dicembre 1944, giorno del suo arresto. La mattina del 20 dicembre, un manipolo di milizie fasciste e soldati tedeschi costrinsero sotto minaccia il fratello Dante a rivelare la sua posizione, tenendolo in ostaggio legato ad un albero sino alla sua cattura. Romano fu catturato nella frazione sangiorgina di Pozzo nella località del vecchio mulino e, dopo essere stato picchiato con il calcio dei fucili, fu condotto presso la Casa del Fascio e delle Corporazioni di Pordenone, ora sede prefettizia. Il 5 gennaio 1945 fu trasferito al carcere di Udine dove rimase sino al 2 febbraio, giorno in cui un convoglio organizzato dalla polizia tedesca (SIPO) di Trieste lo portò al campo di sterminio di Mauthausen, ove giunse il 7 febbraio.
Su segnalazione dei fascisti, Romano Santìn era stato classificato dai tedeschi quale “prigioniero politico”, e come tale gli fu riservato il triangolo rosso.
Del campo principale di Mauthausen sono stati scritti innumerevoli libri di storia e memoria, mentre di Gusen III rimane la testimonianza labile di pochi sopravvissuti. Il campo si trovava nei pressi del paese di Lungitz. Il sottocampo Gusen III fu aperto il 16 dicembre 1944. Mauthausen fu uno di quei campi come Auschwitz-Birkenau per i quali si può citare Primo Levi: “qui si moriva per un sì o per un no”. Il giorno 2 maggio ‘45 ai prigionieri fu ordinato di cominciare una marcia di evacuazione, facendo rientrare al campo i sopravvissuti. Era un metodo per eliminare i prigionieri prima dell’arrivo degli americani liberatori. E il giorno seguente la cosa si ripeté lasciando lungo il tragitto i corpi senza vita di altri prigionieri. La liberazione avvenne il 5 maggio 1945 per l’intervento di una guarnigione di soldati americani guidati dal volontario e nativo polacco Alfred Kosiek.
Oggi solo una piccola stele ricorda il sito in cui si trovava il campo. Nell’ottobre 2019, durante lavori sono stati rinvenuti resti umani riconducibili all’epoca in cui il campo era attivo.
Alla liberazione Romano pesava 38 kg. A causa del suo grave stato di salute, fu trattenuto per alcuni mesi presso una struttura, nelle vicinanze di Linz, vigilata dalle truppe alleate e dalla Croce Rossa Internazionale. Fece ritorno a San Martino al Tagliamento alla fine dell’estate 1945.

Una vicenda diversa è stata quella di Giulio Lenarduzzi. Lenarduzzi Giulio detto Giulietto nacque a Domanins il 17 ottobre 1919, figlio di Sante (del ramo Lenarduz) e di Ester De Candido. All’età di tredici anni Giulio – e la sorella Rita – si ritrovarono orfani di entrambi i genitori e perlopiù ridotti in povertà. Giulio fu affidato allo zio Luigi e Rita agli zii Giuseppe e Filomena. Il giovane iniziò a lavorare come carpentiere. Nel marzo 1940, fu chiamato alle armi e partì per i Balcani. Nel settembre ’43, dopo l’armistizio, fu catturato dai tedeschi e imprigionato nell’isola di Samo e poi internato in Germania. In seguito, attraverso vicende sulle quali non si è ancora fatta luce, Giulio fu liberato dai sovietici e portato in U.R.S.S. come prigioniero politico. Fu rilasciato nel novembre ’45 e ritornò in Italia. Fu decorato con Croce al merito di guerra.
Il 21 maggio 1947, si trovava a Fontaniva in provincia di Padova a lavorare per la costruzione di un ponte ferroviario per conto dell’impresa edile di Adelmo Lenarduzzi. Giulio cadde accidentalmente da un’impalcatura e morì mentre durante il trasporto in ospedale. Lo sfortunato giovane aveva solo ventisette anni e non lasciò né moglie né figli. Fu tumulato a Domanins nella tomba di famiglia.
Fra le poche cose che aveva, Giulio Lenarduzzi lasciò ai posteri una serie di scritti. Furono i corsi di studio della “scuola antifascista” che le autorità sovietiche riservarono ai prigionieri politici italiani al fine di “rieducarli all’antifascismo” attraverso l’indottrinamento politico.
Tali corsi si tennero nell’antico monastero di Suzdal nella Russia centrale e furono seguiti da circa 400 allievi, soldati o ufficiali italiani. Giulio lasciò all’amico Vittorio Marchi gli appunti delle 39 lezioni che si svolsero dal 14 giugno al 29 settembre 1945 che lui stesso seguì. La vicenda di questi quattrocento allievi è citata nell’opera storiografica di Marco Clementi: L’alleato Stalin nella quale si narra del campo e delle lezioni di rieducazione. Le lezioni di “rieducazione” si svolsero nelle cittadine di Vladimir e Suzdal, e furono tenute da Paolo Robotti attivista italo-sovietico del Comintern (cognato di Palmiro Togliatti) e all’epoca dirigente della sezione italiana del “club” degli emigrati politici.
La scuola insegnava i capisaldi della dottrina sociale marxista e della prassi rivoluzionaria del leninismo, formulati in maniera dogmatica e con un approccio storico del tutto acritico. Le lezioni dedicavano ampio spazio alla studio della storia contemporanea nei suoi avvenimenti fondamentali: dal Risorgimento italiano alla Comune di Parigi; dal regime fascista italiano, le due guerre mondiali fino all’analisi dei partiti antifascisti italiani. Erano esposte, inoltre, le principali teorie dell’analisi marxista sul capitale e sul lavoro. Un altro filone, invece, trattava delle istituzioni e della politica dell’U.R.S.S. – facendone l’apologia – di geografia e di storia russa, raccontando la Rivoluzione dell’ottobre ‘17 e le biografie di Marx, Engels, Lenin e Stalin.
Il 17 gennaio 2001, il signor Dante Lenarduzzi, presidente della sezione di Domanins dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, consegnò una breve lettera al signor Gian Paolo Chiandotto presidente dell’Associazione Friulana dei Donatori di Sangue di Domanins A.F.D.S. Il signor Lenarduzzi comunicò lo scioglimento del sodalizio al fine di fonderlo con la “Sezione madre” di San Giorgio della Richinvelda. L’attività del gruppo – composto all’epoca da 17 membri – sarebbe perciò continuata unitamente agli altri reduci. Ma, fu volontà unanime dei generosi combattenti di Domanins lasciare in eredità la propria memoria e i propri beni materiali alla sezione dei donatori di sangue, ritenendola un’associazione degna, affidabile e zelante per la tutela della propria memoria.
Il presidente Chiandotto accettò con orgoglio questo lascito. I Combattenti e Reduci consegnarono perciò all’A.F.D.S. la bandiera, il loro archivio, la somma di lire 100.000 e una lettera del maestro Rino Secco con una breve cronistoria della benemerita associazione. Oltretutto, i Donatori di sangue avrebbero dovuto “…ricordare, durante le cerimonie ufficiali, i Combattenti e Reduci delle due guerre, con particolare riguardo a coloro che hanno donato la loro giovane vita alla Patria”. Inoltre, riguardo al Monumento ai Caduti, Dante Lenarduzzi si augurò che “…codesta Associazione si faccia parte attiva […] per una sollecita manutenzione del medesimo”.
Tra il mese di giugno e luglio del 2002 il Monumento ai caduti fu definitivamente spostato nell’attuale sito con alle sue spalle il muro di sassi dell’infinito. L’evento fu festeggiato dal paese con solenne cerimonia di benedizione e con la partecipazione di quattro ragazze nel tradizionale costume delle furlane.
Il Monumento ai donatori
L’altra opera scultorea di piazza Indipendenza è il Monumento ai donatori costruito nel 2013 dalla sezione locali dei donatori di sangue associata all’A.F.D.S. Provincia di Pordenone.
L’opera corona un progetto caldeggiato da più di tre anni dal presidente Chiandotto e dal Consiglio di Sezione, con l’aiuto dell’amministrazione comunale del sindaco Anna Maria Papais. La cerimonia inaugurale si è svolta sabato 7 settembre 2013 alla presenza di sessanta persone con la presenza del gruppo A.F.D.S., il vice presidente provinciale Donatori di sangue di Pordenone Ivo Baita, il sindaco Michele Leon e altre autorità comunali.
L’appuntamento è stato fissato sul sagrato della chiesa. In seguito si è formato un piccolo corteo, con in testa i labari di Sezione di Domanins, e dei paesi vicini di Rauscedo e San Giorgio e si è diretto fino alla piazzetta. Il parroco don Gianfranco Furlan ha dato la benedizione all’opera e poi si sono svolti i discorsi ufficiali. Il presidente Chiandotto ha illustrato al pubblico la struttura e il significato dell’opera: “… Le pietre che compongono la fontana sono i sassi dei Meduna, gli elementi naturali della nostra terra. Ai lati sono disposte due panche affinché chi vi si siede possa riflettere sul messaggio che essa esprime: “Acqua e sangue, sorgenti di vita” è l’iscrizione incisa sopra il Pellicano che meglio sintetizza il nostro pensiero e la nostra attività di donatori. Ciò rappresenta il monito e la speranza di coloro che hanno fatto del dono gratuito di sé, un bene prezioso per gli altri“.

Il Monumento è stato realizzato a forma di pozzo e fontana con rubinetto. Curvo con due lati che si prolungano ad abbracciare il prossimo o il viandante assettato in cerca di acqua o di sangue per vivere. Sulla parte anteriore è stato realizzato un mosaico del logo dell’A.F.D.S. Il pellicano che nutre il piccolo con il suo stesso sangue. Sul retro vi è un dipinto del pellicano e goccia con la scritta “Chi ama dona”.

Per dedica e omaggio a questa grande tradizione che contraddistingue il paese di Domanins, il 9 novembre 2020 l’amministrazione comunale ha voluto intitolare una strada ai donatori, come tale la “via dei Donatori” nella località Selva.
Piazza San Michele Arcangelo, centro storico e religioso di Domanins
Proseguendo oltre si giunge al centro del paese. In esso si trova la chiesa parrocchiale e il campanile. Prima del 2002, come abbiamo visto poc’anzi, il Monumento ai caduti era collocato sul largo antistante il sagrato, e le aiuole erano cosparse di alti abeti e cipressi. Era questa l’immagine tradizionale e maggiormente nota di Domanins nel Novecento. Era questo il cento del paese ritratto da molte fotografie dall’alto e da dipinti e affreschi.
La Chiesa parrocchiale di S. Michele Arcangelo è stata costruita tra il 1841 e il 1854 su progetto e finanziamento approvati da parte del governo imperiale dell’Austria-Ungheria nel 1841. La vecchia parrocchiale, che era ormai vecchia e fatiscente risalente al XII secolo, si trovava ove si trova l’attuale canonica. Essa fu demolita nel 1842. I parrocchiani si riunirono in un comitato pro erigenda chiesa già dal 1832 esprimendo la loro volontà sotto il sacerdozio don Giovanni Covelli e con la benevolenza del vescovo monsignor Carlo Fontanini.
I lavori incominciarono nel 1836 su progetto dell’ingegner Giovanni Battista Cavedalis di Spilimbergo ma in quest’epoca il progetto non fu approvato dalla regia delegazione di stanza a Udine. Intervenne cinque anni dopo il governo di Vienna che contribuì con denaro. Anche i popolani si prodigarono con offerte sia in denaro sia manodopera e derrate agricole.

Attorno alla vecchia parrocchiale era sito l’antico camposanto e a conferma di ciò si potevano trovare fino a qualche decennio fa ossa umane nel cortile della canonica.
La facciata e il soffitto sono stati rimaneggiati ad opera di don Antonio Fioretta nel primo dopoguerra. La facciata venne ristrutturata nel 1932, arricchita con lesene, riquadrature, cornicioni e due nicchie. Terminata con frontone cieco raccordato agli angoli della stessa, si operò l’intonacatura esterna e la soffittatura interna. La muratura è in sassi del Meduna e di materiale di recupero dalla demolizione della vecchia parrocchiale e della chiesetta di S. Girolamo, come già detto in precedenza. I cantonali furono eseguiti con pietra prelevata a Meduno. Capo mastro fu Pietro Bisutti da Rauscedo. Il portale maggiore fu eseguito dal tagliapietra Giovanni Melocco di Lestans. Quello della porta piccola è di recupero dalla vecchia parrocchiale.

La pianta è a navata unica con ampio presbiterio sopraelevato da tre scalini. Il pavimento è in terrazzo alla veneziana. Al suo interno vi è l’altare maggiore in marmo policromo in stile barocco e di pregevole fattura, opera dello scultore udinese Giuseppe Mattiussi del 1787. È stata aumentata la mensa e il paliotto. La struttura del tabernacolo è in marmo policromo. Gli angioletti che fanno corona hanno un tono languido e grazioso, sul vertice risalta il Cristo Risorto.
Ai lati dell’altare troviamo le statue di S. Michele e S. Raffaele che sostituiscono le immagini dipinte su tela di antiche origini. La statua di San Michele Arcangelo è di Valentino Sommavilla di Ortisei (1920 ca.). La statua di S. Valentino e altre statue minori. Al di sopra dell’altare possiamo osservare Alla scuola friulana di fine Seicento, fu attribuito invece il dipinto della Madonna del Rosario con S. Domenico e S. Caterina. Probabilmente il dipinto è stato commissionato nel 1686, anno in cui sorse la confraternita del S. Rosario.

La porticina del tabernacolo è dorata e in bassorilievo è in essa rappresentato San Michele Arcangelo. Nel 1969, don Gallo Moschetta collocò sulla porticina un’icona dell’Associazione Friulana Donatori di Sangue (A.F.D.S.): il Pellicano che pungendo sé stesso dona il proprio sangue al figlio. Tale immagine è un antichissimo simbolo della Cristianità che rappresenta la carità, la risurrezione delle anime e l’immortalità.

Al lato sinistro della navata troviamo l’altare di San Valentino con l’immagine del beato benedicente con devoti e processione della confraternita, è del pittore pordenonese Gasparo Narvesa (1558 – 1639) porta la data 1595. La scena è quella di interno di una chiesa, con figure di donne e bambini realizzati con colori scintillanti, da notare lo sguardo dolcissimo delle madri e l’espressione dei bambini nonché i particolari: un calice, tre piccoli crocifissi, una stuoia a coprire il pulpito. Nella affollata composizione, eleganti inferriate delle finestre lasciano intravedere la luminosa campagna e lo snodarsi della processione dei fedeli che termina con i confratelli vestiti da un camice bianco e la testa coperta da un cappuccio come usavano i flagellanti. Sopra il minuscolo altare è rappresentato S. Biagio Vescovo e Martire di Sebaste (Cappadocia) con insegne, mitra, pastorale e pettine di ferro dei cardatori di lana con cui fu martirizzato. S. Valentino era invocato contro il mal caduco e S. Biagio per il mal di gola, per la protezione dei lavoratori della lana e per la salvaguardia delle pecore.

Sul lato destro possiamo ammirare l’altare dedicato all’Immacolata Concezione con scultura in legno opera di Scalambrin di Fossalta di Portogruaro. Sopra la porta principale è collocata la pala dell’Annunciazione di autore ignoto. Il dipinto dell’Annunciazione di Domanins è gradevole con colori vivaci e contrastanti. Il paesaggio è ricco di particolari, il libro di preghiere, il cesto del lavoro, i cipressi, la balaustra. Il quadro fu trasformato in pala nel 1882, Giobatta Bonanni indorò la cornice eseguita dal falegname Annoio Pecora.

Il crocifisso ceramico del 1980 di Antonio Boatto e le stazioni della via Crucis in ceramica del 1981 di Italo Costantini di Treviso (1910 – 1982) sono opere pregevoli e futuristiche. Il battesimo è un’opera modesta attribuibile ai maestri medunesi del XVI secolo. Sulla parete a sud è posta una targa a ricordo del Giubileo dell’umana redenzione indetto da papa Pio XI nel biennio 1933-1934 per celebrare il XIX anniversario della nascita di Gesù. La chiesa ottenne la consacrazione il 1° maggio 1970 dal vescovo Vittorio De Zanche. L’11 febbraio 1981 divenne chiesa arcipretale su decreto del vescovo Abramo Freschi.

Il Campanile è in stile gotico ed è alto 41 metri secondo le stime ufficiali (secondo altre fonti raggiunge i 47 metri). È stato realizzato su progetto dell’architetto Gerolamo D’Aronco di Gemona Del Friuli padre del ben più noto Raimondo d’Aronco.

Girolamo D’Aronco 1894
La prima torre campanaria di Domanins risale al 1656-1658. Fu costruita dai maestri Carlo e Martino Milanesi che la incorporarono alla chiesa. Antecedentemente la parrocchiale era provvista di una sola campanella collocata su un campaniletto a vela. Nel 1842 il campanile fu demolito assieme alla chiesa e il materiale di risulta fu impiegato per la costruzione del nuovo tempio. I lavori di costruzione dell’attuale torre iniziarono nel 1872 sotto la guida del parroco don Giuseppe Della Schiava. La posa della prima pietra avvenne il 15 aprile 1880. A causa della mancanza di fondi e della consistente emigrazione della popolazione in quegli anni nei paesi dell’America Latina, i lavori vennero ultimati solo negli anni 1892-1894 sotto la guida del compaesano Sante Lenarduzzi e con il reverendo parroco don Giobatta Sina. Come già accennato nella prima parte del viaggio, dal 1887 al 1889 i paesani di Domanins costruirono la strada che porta a Castions di Zoppola. Con il denaro ricavato da questo lavoro riuscirono ad ultimare il campanile.
L’opera sorge su di una solida base troncopiramidale con pietre angolari squadrate e sassi tagliati, terminate con una cornice di pietra all’altezza di m. 4,70. La canna rinforzata agli angoli è tutta in cotto. Al centro di ogni facciata sono sovrapposte ad intervalli regolari le finestrelle. Sopra si estende la cella campanara composta da una grande monofora gotica per lato con relativo coronamento di quattro piccole piramidi ai contorni e una grande cuspide centrale poggiata su parallelepipedo ottagonale.
Le campane arrivarono nel 1900. Il fonditore Pietro Colbacchini di S. Giovanni di Bassano acquistò le campane di Vigonovo con i soldi delle offerte della popolazione di Domanins e con la consegna dei vecchi bronzi. Il telaio fu costruito da Giovanni Tapporello di Mason Vincentino. Suonarono per la prima volta il 14 gennaio 1900.
Il campanile fu danneggiato ben tre volte: sulla punta dal ciclone del 1919 che sconvolse Domanins e i paesi di San Giorgio e Cosa; da uno scontro aereo avvenuto nel 1971; infine, dal terremoto del 1976.

La piazza S. Michele ospita anche due belle abitazioni di fine Ottocento: la Villa Lenarduzzi chiamandola così perché vi abitava la famiglia Lenarduzzi del ramo Lenardus; la Villa De Bedin, abitazione della famiglia del cavalier Umberto De Bedin, famiglia di costruttori di Venezia, famosa in particolare perché diede i natali al pittore Angelo Bonutto nato il 31 luglio 1852 e deceduto a Venezia il 1° marzo 1933. Questo edificio risale al Cinquecento o al Seicento e probabilmente era la casa di un fattore. Angelo Bonutto era figlio di Antonio Bonutto di Nicolò di Lestans e di Maria Luigia De Bedin di Domenico.
Il Bonutto frequentò l’Accademia di Belle Arti di Venezia dal 1869 al 1876. La sua formazione accademica disciplinò le sue qualità artistiche che dimostrò sin da fanciullo. Ebbe come maestro Jacopo D’Andrea di Rauscedo che sostituì all’epoca il ben più noto Michelangelo Grigoletti nella cattedra di disegno. Angelo Bonutto partecipò a molte delle esposizioni artistiche promosse nelle maggiori città italiane, quali l’Esposizione Solenne di Firenze nel 1877, l’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Milano nel 1878, l’Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Genova e l’Esposizione Nazionale di Milano nel 1881, l’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Roma nel 1883 e l’Esposizione Nazionale di Torino nel 1884.
La sua vocazione pittorica si espresse nella tradizione figurativa dell’Ottocento, dipingendo ritratti di persone, paesaggi, con una particolare attenzione al tema del lavoro del tempo. Rivelava una tecnica semplice, di gusto popolare ed efficace nel farsi conoscere in quegli anni nel panorama artistico-pittorico del Friuli e del Veneto. Dai primi anni del Novecento si rileva l’amicizia tra il pittore friulano e importanti esponenti dell’arte italiana dell’epoca, quali Alessandro Milesi e, soprattutto. Cesare Laurenti. Di quest’ultimo il Bonutto divenne collaboratore e prezioso uomo di fiducia, amicizia e collaborazione che durò fino alla sua morte.

Concludo questa visita alla villa Lenarduzzi con il racconto dell’origine di un’edicola dedicata alla Madonna e collocata sul retro del muro di cinta che dà su via Oberoffer e quindi nel Borgo Leone.
Erano i primi del ‘900 quando venne sposa a Domanins una giovane piemontese di nome Giuseppina. Dal sue amato Piemonte, oltre ai più cari ricordi portò in Friuli due immagini sacre: quella della Madonna Consolata di Torino e quella del Beato Cafasso. Questa seconda raffigurazione ha suscitato per anni la curiosità di tutti. Ci si chiedeva chi fosse il Santo immortalato. Solo negli anni dieci dell’attuale secolo, dopo svariate ricerche, abbiamo scoperto che è il protettore dei carcerati, probabilmente conterraneo della nonna.

Al suo arrivo a Domanins, Giuseppina chiese al marito Umberto De Bedin la costruzione di un’edicola dove poter custodire i “suoi Santi” e poter rivolgere loro qualche preghiera nei momenti di nostalgia e sconforto. Il nonno costruì allora, lungo il muro di cinta della proprietà, una piccola cappella rivolta verso la strada che porta al Borgo Leone in modo che anche i passanti potessero rivolgere un pensiero alle sacre immagini. Negli anni sessanta, con la costruzione della nuova strada, l’edicola fu demolita e successivamente ricostruita nella sua sede attuale continuando ad essere un punte di ritrovo e preghiera per gli abitanti del Borgo.


Alla fine del Borgo Leone, verso Arzene, un nipote dei De Bedin, Francesco Umberto, ha fatto nascere il Bed & Breakfast Antico Borgo Leone, nella struttura dell’abitazione del padre Mario.

Dopo villa De Bedin lasciamo la piazza San Michele Arcangelo. Dopo la chiesa, se andiamo a destra imbocchiamo la via S. Martino la quale conduce all’omonimo paese e sede del comune. Su quella strada incontriamo il grande e vecchio edificio delle ex scuole elementari risalente al 1960. Ora in disuso, è stato nel recente passato sede delle associazioni e dei vari gruppi di volontariato del paese (sezione Rangers F.V.G., Movimento Giovani Domanins, Animatori).

Proseguendo invece sulla provinciale entriamo in quello che un tempo era il “Viale Belvedere”. A destra fanno angolo il Bar Centrale con degustazione prosciutto, un negozio di generi alimentari, una parrucchiera. Nell’edificio INA-Casa sulla sinistra, troviamo uno studio di medicina olistica e l’edicola con tabacchi. Il piano superiore ospitava un tempo i locali della vecchia Cooperativa di Consumo. Fondata il 15 settembre 1919, e inaugurata il 7 febbraio dell’anno successivo, fu sede anche del Circolo Famigliare del paese.
E’ questo il centro vitale del paese, dal “buongiorno” del mattino fino alla domenica di festa.
La via Belvedere continua con l’edificio della ex scuola infantile, collocato sul lato destro, ed ora luogo di riunioni, convegni e incontri di catechismo al piano terra, sede dell’associazione dei donatori di sangue al primo piano. Subito dopo, sullo stesso lato si trova la Trattoria Belvedere, la Nana, antico ristorante e osteria del paese sin dagli anni venti, molto rinomata nei dintorni.

Proseguendo oltre, dalla parte sinistra, questa volta, al civico 31 sono presenti due case che rappresentano i caratteri tipici dell’architettura rurale friulana. Restaurate e riportate alla loro condizione originaria dopo i danni provocati dal terremoto del 1976. Esse sono un esempio del rapporto organico tra l’uomo, l’ambiente e le sue occupazioni del lavoro e e nel tempo libero. Questo grande edificio unico costituito da portici e archi fioriti è abitazione della famiglia Pancino.
In questa casa è nato e vissuto nei primi anni della giovinezza Gino Pancino, ciclista su strada e pistard italiano dilettante. Fu campione del mondo nell’inseguimento a squadre su pista nel 1966 a Francoforte e medaglia di bronzo nella stessa specialità ai Giochi di Città del Messico 1968. Proprio nella casa paterna, il 4 settembre 1966 festeggiò con famigliari, parenti e amici di tutto il paese la conquista del titolo mondiale. Nel 2016, in occasione del cinquantesimo anniversario della vittoria organizzò una serata in memoria e donò la sua maglia ai donatori di sangue di Domanins che tuttora custodiscono nella loro sede. Il 12 ottobre 2021 il C.O.N.I. gli ha assegnato il Collare d’oro al merito sportivo, massima onorificenza sportiva.
I nobili Spilimbergo-Domanins e il loro palazzo
Al lato opposto e quasi difronte alla casa Pancino si nota, dirimpetto alla strada una chiesetta facente angolo di un grande muro di cinta. Si tratta dell’Oratorio di Santa Eurosia Martire, una cappella gentilizia del Settecento dedicata alla santa patrona delle campagne.

Il muro di cinta dirimpetto alla carrozzabile racchiude la sontuosa villa Spilimbergo-Spanio, una delle realtà artistiche più prestigiose, di gusto neoclassico, della provincia di Pordenone e monumento nazionale.
Palazzo di “…vetusta villeggiatura” fu esso edificato a partire dagli ultimi decenni del XIV secolo. Villa di proprietà della nobile famiglia dei conti Spilimbergo Domanins prima come dimora estiva, di villeggiatura e villa “di caccia”, e, con il passare dei secoli, a partire dal Seicento divenne la loro stabile dimora. Alle origini, il palazzo era formato da quattro torri che chiudevano agli angoli il corpo centrale, con il muro di cinta di notevole spessore (mt 0,75) quale struttura castrense collocata a protezione e difesa della famiglia.

La famiglia degli Spilimbergo-Domanins è così denominata dal possedimento di questa villa e appartiene al ramo Spilimbergo di Sopra. Sono discendenti di Walterpertoldo di Spilimbergo-Zuccola, condottiero di ventura e combattente nelle crociate. La casata degli Spilimbergo è di origine germanica (Spengenberg) e il maestoso castello del rinomato capoluogo del mosaico è menzionato nel testamento di Enrico II duca di Carinzia e faceva parte del legato a favore di Ottocaro di Stiria (1122). Questa famiglia comparve in Friuli nel XII secolo e venuta con il Patriarca Voldarico I (1085-1121) dei duchi di Carinzia.
La signoria di Domanins, come dei paesi limitrofi, è stata soggetta alla giurisdizione degli Spilimbergo sin dal XIV secolo. Esiste infatti un documento risalente al 3 febbraio 1332 nel quale si poneva fine ad una controversia sorta tra gli Spilimbergo (nella persona di Pregonia e Bartolomeo) e i signori di Valvasone. Agli Spilimbergo venne riconosciuta la potestà civile e criminale – giurisdizione e garrito – per i paesi di Domanins, Rauscedo, San Giorgio e altri confinanti.
L’attuale ramo Domanins proviene da Gio Francesco e Giulia originatosi nel Cinquecento. Gli attuali discendenti sono i nipoti della contessa Irene di Spilimbergo (1897-1979) sposa del prof. Angelo Spanio (1892-1976), medico e politico veneziano, sindaco di Venezia dal 1951 al 1955, presidente della Biennale e della Fondazione Cini. Da allora il ramo venne denominato Spilimbergo-Spanio e in anni recenti Spanio di Spilimbergo. Il figlio Gualtiero (n. 1931- m. 2020) si occupava del palazzo, curando e amministrando l’azienda agricola vitivinicola situata difronte, sul lato opposto di via Belvedere. Oggi, la villa è abitata dai cinque figli del conte Gualtiero: Angelo, Francesca, Guido, Olga ed Enrico Tommaso.

La villa è costituita da un corpo centrale a tre piani con ali arretrate che si affacciano in una corte adibita a giardino. I fabbricati di servizio, un tempo adibiti e barchessa, sono staccati dal corpo centrale e disposti perpendicolarmente ad esso. La facciata verso la campagna presenta la medesima disposizione. Sul lato destro è stata edificata la chiesetta dedicata al culto di S. Eurosia. Accanto ad essa vi è una barchessa sulla quale una meridiana riporta la data del 1735. Il portale di ingresso è del Cinquecento ed è attribuibile ad un lapicida seguace di Antonio Pilacorte. Sul lato sinistro vi sono dei resti murari che conservano la testimonianza di un altro edificio di origine quattrocentesca e denominato “filanda”.
Il Palazzo Spilimbergo-Spanio (o semplicemente Palazzo Spanio) si presenta oggi secondo un riammodernamento avvenuto nel 1804 che ne mantenne il suo aspetto sobrio e severo. La prima facciata del palazzo, quella d’ingresso, è formata da tre piani, ed è caratterizzata da un portale in pietra di forma rettangolare e venti finestre distribuite in simmetria lineare. La seconda facciata, quella retrostante che dà sul giardino, è molto più vasta e dall’aspetto imponente. E’ composta da due delle quattro originarie e da un corpo secondario il quale viene chiamato “Ala Savorgnan”. Questo plesso della villa prende il nome da Faustina Savorgnan della Bandiera, nobildonna e marchesa della potente famiglia veneziano-friulana. La marchesa ereditò il patrimonio di famiglia dallo zio Antonio Savorgnan, poiché rimasta orfana, e sposando nel 1804 il nobile Giulio di Spilimbergo Domanins rivoluzionò così l’aspetto della villa.

Gli interni, circa un centinaio di stanze, furono tutti riadattati secondo le teorie dell’architettura razionale: stanze di non grandi dimensioni con soffitti bassi, con una suddivisione sapiente, razionale e simmetrica, degli spazi.
Il salone al piano terra, però, occupa in altezza due piani secondo la tradizione veneta. E’ un atrium, ossia un monumentale sala di ingresso, secondo i canoni della tradizione romana imperiale. L’atrio fu affrescato dalla mano di due artisti veneziani: Giuseppe Borsato e Giambattista Canal dei quali ivi troviamo le firme, inscritte su due targhe collocate proprio nel salone. Leggiamo: “joseph – borsatus – ven. – architectus – et – pictor – ornavit.” e “jo. – canalius – ven. – megalographiam – signorum – pinxit.”. Un’altra iscrizione riporta poi la data di esecuzione dei lavori: “a. mdccciv”. Era il veneziano Canaletto, figurista di gusto neoclassico, rococò e barocco e autore di numerosi dipinti di ville, chiese e luoghi di cultura e aggregazione tra il Friuli e il Veneto come il Palazzo vescovile di Udine, il teatro sociale, Palazzo Gallici Strassoldo e Villa Caiselli a Borgo Cortello. E poi il coro della parrocchiale di Faedis e Palazzo Valvason Morpurgo. Il Canaletto operò in collaborazione con il veneziano Giuseppe Borsato, quadraturista e vedutista di scuola del Canova: recupero della classicità di Roma e Atene con le figure della tradizione veneta.
La Sala delle Muse e il Soffitto dell’atrio sono stati dipinti dal Giovanni Battista Canal e ornati e “quadrati” dal Borsato. L’atrio è costituito da colonne corinzie giganti e da trabeazioni che danno un effetto ottico. Il soffitto inquadra trionfi militari con tamburi, elmi, bandiere e corazze, e che con finti cassettoni incorniciano al centro un brano allegorico: “il Merito, la Virtù e la Fama”. Trombe, armi e nuvole appaiono nel soffitto con due putti con alabarda che entrano nello spazio. Nell’atrio sono presenti statue di Hermes ed Atena, con bassorilievi che inquadrano scene di battaglia a glorificazione delle passate virtù belliche della famiglia degli Spilimbergo e la Sovraporta con trionfo con e scritta dedicata a Giuseppe Borsato.
Confortevole e raffinato è il Salotto delle Muse attiguo all’atrio. E’ affrescato con candelabre monocrome lilla che scandiscono figure delle figlie di Zeus. Sono interessanti le candelabre del Borsato i cui motivi richiamano l’antichità. Figure come ghirlande, girali con piante e animali fantastici sono alternati da bracieri, placchette e insegne militari. Sul soffitto del Salotto campeggia il Carro di Apollo colorato ed incorniciato da girali d’acanto, aquile e cammei. Nella Sala da pranzo possiamo osservare le tre sovraporte ispirate dalle figure della natura morta come pesci, frutta e cacciagione. Questi tre dipinti sono stati eseguiti ad imitazione degli antico romani encausti. Il disegno delle nature morte sfuma il profilo degli oggetti con i colori in una tecnica e un effetto impressionista.
L’importanza del palazzo Spilimbergo è dimostrata anche dalle visite, nel secolo scorso, di personaggi prestigiosi della storia politica ed ecclesiastica del nostro paese. Nel 1916 Sua Altezza Reale il Duca d’Aosta Emanuele Filiberto, in qualità di comandante della 3° Armata dell’Esercito italiano, impegnato allora nella prima guerra mondiale, passò in rivista le sue truppe schierate nella villa Spilimbergo. L’anno successivo, nell’ottobre del 1917 e nelle tristi giornate di Caporetto, passò per il paese il re d’Italia Vittorio Emanuele III. In epoche successive, dal fascismo all’immediato secondo dopoguerra, la famiglia Spilimbergo-Spanio ospitò il Patriarca di Venezia Giovanni Adeodato Piazza.
Il 14 giugno 1954, il professor Angelo Spanio ricevette la visita del Patriarca Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII. All’epoca il sindaco di Venezia era il dottor Angelo Spanio, medico e libero docente di Clinica medica e Patologia medica e primario presso l’Ospedale civile di Venezia, nonché doge e presidente della Fondazione Giorgio Cini.
Fu in questo periodo che il dottor Spanio conobbe la massima autorità religiosa di Venezia e del Veneto. Il loro rapporto fu contrassegnato da reciproco rispetto e ammirazione nel corso delle molteplici attività politiche e culturali della laguna e negli incontri mondani. “Il dott. Angelo Spanio già sindaco di Venezia: sempre molto degno e caro” scriveva il cardinal Roncalli nel suo diario che per lui provava “grande stima e affezione” poiché esso sapeva essere sempre all’altezza delle situazioni più gravi e difficili dando di sé “prova nobile ed edificante che gli fa onore”. E a sua volta, il dottor Spanio fu con il patriarca sempre “riconoscente della usatagli carità e meritata fiducia”. Dalla lettura dei diari, apprendiamo inoltre che il cardinale fu presente e vicino al padre del dottor Spanio nei suoi ultimi momenti di vita.
Le regole e le convenzioni raffinate dell’alta società imponevano perciò che ad ogni invito ufficiale si doveva restituire un altro con ugual dignità e modo. E il sindaco scelse quale altro miglior luogo se non la dimora della propria moglie in Friuli. Il dottor Angelo Spanio, veneziano di nascita, aveva contratto in matrimonio la contessa Irene di Spilimbergo la quale risiedeva in una villa trecentesca a Domanins in provincia di Udine e nel circondario di Spilimbergo. Nel suo palazzo “di vetusta villeggiatura”, il dottor Spanio aveva il proprio ambulatorio ove si recava una volta ogni quindici giorni, alternando con un altro studio medico a San Donà di Piave e con l’attività politica a Venezia.
La prestigiosa Villa Spilimbergo si prestava bene per i ricevimenti di tale tipo: un corpo centrale con ali arretrate che si affacciavano in una corte adibita a giardino. Nelle sue pertinenze si trovava una chiesetta per lo svolgimento delle funzioni liturgiche. Il cardinale giunse a Domanins alla sera con la vettura del dottor Spanio e accompagnato dal suo segretario particolare don Loris Francesco Capovilla. Il ricevimento fu assai “nobile e cordiale” – come scrisse il Roncalli nel suo diario. Furono presenti personalità del clero e maggiorenti provenienti dai dintorni della provincia e della diocesi concordiese: il vescovo di Concordia monsignor Vittorio De Zanche e altri due prelati. Ci furono poi il prefetto e il sindaco di Udine e parecchi altri notabili.
L’arrivo del prelato fu accolto in paese dalle autorità civili e dal parroco di Domanins don Gallo Moschetta, dalla contessa Irene e dalla sua famiglia. Nel giardino della villa furono radunati gli alunni delle scuole elementari, dalla prima alla sesta classe. I fanciulli indossavano un grembiule di colore blu con il colletto bianco e portavano una rosa in mano. Il patriarca scese dalla lunga berlina del dottor Spanio, salutando e sorridendo amabilmente agli altri invitati. Dopo le presentazioni e i discorsi di rito fu officiata la S. Messa nell’oratorio di S. Eurosia martire posto sul davanti della villa e contiguo alla cinta muraria. Al termine della funzione religiosa si svolse la cena.
Alla fine di una giornata afosa e serena di prima estate, il patriarca ritornò a Venezia verso la mezzanotte. Il cardinale Roncalli volle essere grato e riconoscente anche alla parrocchia di S. Michele Arcangelo di Domanins donando al parroco don Moschetta una pianeta rossa di pregiata fattura da indossare durante la celebrazione della messa, veste che è tuttora conservata nella sagrestia della chiesa parrocchiale.

con lo stemma patriarcale
Negli ultimi anni, il giardino antistante il palazzo sono esposte alcune opere dello scultore Ivan Theimer. Nato ad Olomouc in Moravia, Ivan Theimer è uno scultore, pittore e incisore ceco naturalizzato francese. Ha frequentato l’accademia di belle arti di Uherské Hradiště. Dopo l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia, nel 1968 emigra a Parigi, dove studia all’École nationale supérieure des beaux-arts dal 1968 al 1971. Nel 1973 partecipa alla Biennale di Parigi e negli anni 1978 e 1982 rappresenta la Francia alla Biennale di Venezia.
Nelle sue opere si ispira al manierismo toscano, ma anche al simbolismo e ai classicismi delle età antiche, dalla civiltà egizia sino a quella greco-romana. Le sue opere monumentali, soprattutto obelischi, sono situate in numerose piazze d’Europa. Dopo il matrimonio con la contessa Olga Spanio di Spilimbergo dona al palazzo del suocero conte Gualtiero due fra le sue opere: l’Ercole che porta l’obelisco e la Tartaruga.
Dall’altro lato della strada provinciale che attraversa il paese, come abbiamo già visto, si trova l’azienda agricola dei conti Spilimbergo. La tenuta si estende fino ai confini del paese, in mezzo ai terreni coltivati e ai prativi raggiungendo le zone del Borgo di Rauscedo. Sono terreni coltivati a vitigno con produzione vinicola. L’azienda si è avvalsa con i secoli delle braccia dei popolani, come salariati e come fittavoli.

Nel suo coacervo, affacciandosi alla strada, si può osservare un’abitazione con un porticato ad archi. Si tratta di un edificio di tradizionale architettura friulana ristrutturato dopo il terremoto del 1976. L’abitazione risale al Seicento ed è anch’essa monumento nazionale. Essa fu dimora di molte famiglie del luogo che prestavano opera, servizio o servitù presso la famiglia nobiliare.

Il centro sportivo del paese e l’associazione friulana dei donatori di sangue
Lasciamo ora la terra degli Spilimbergo, il palazzo e l’azienda, e continuiamo sulla via Belvedere in direzione nord. Dopo duecento metri, sulla destra incontriamo via dei Raggi. L’entusiasmo di una comunità unita attorno a sé stessa, alle sue attività e alle sue realizzazioni è qualcosa di grande e forte, che nei momenti più drammatici della propria storia non diminuisce ma aumenta, creando qualcosa di nuovo e di più grande e duraturo.

Nel 1976, in Friuli si verificò un forte terremoto con epicentro Gemona. Le tre maggiori scosse si registrarono il 6 maggio e nei giorni 11 e 15 settembre, causando quasi un migliaio di morti, centinaia di feriti e danni incalcolabili arrecati a edifici e a infrastrutture. La catastrofe si è impressa per sempre nella memoria di coloro che l’hanno vissuta e subita. Il carattere forte dei friulani e il loro sentimento di rivincita hanno prevalso sulla realtà e hanno indotto la popolazione a rimboccarsi le maniche per iniziare fin da subito a ricostruire tutto. All’epoca, nella piccola realtà di Domanins si è sentita l’esigenza di creare uno spazio destinato alla gioventù e allo sport. Un gruppo di volontari ha deciso perciò di “bonificare” un’area verde ai margini del paese – nella zona denominata “Claut” – al fine di creare un campo da calcio con un boschetto attiguo per i tifosi e per i momenti di festa e di socialità della popolazione. Questo volenteroso gruppo ha avuto il merito di aver dato vita, a Domanins, a una nuova realtà sociale e sportiva.

Il 1977 è stato l’anno in cui è sorta una “società pura” calcistica a Domanins. Il terreno ad est della villa Spilimbergo-Spanio, di proprietà di Sante Lenarduzzi, è stato ceduto al Comune di San Giorgio della Richinvelda. In breve tempo, i volontari del paese si sono adoperati per costruire l’impianto sportivo: lo spogliatoio, la recinzione, poi l’impianto d’illuminazione e d’irrigazione. L’idea di uno spazio sportivo e ricreativo attrae molti giovani di Domanins i quali rispondono volenterosamente partecipando ai lavori. Il paese può così accarezzare l’idea di avere una propria squadra di calcio e permettere così ai propri giovani e giovanissimi di imparare proprio qui il gioco più bello e popolare del mondo, senza dover andare a Rauscedo, a San Giorgio o in altri paesi.
Il battesimo del nuovo campo da gioco è stato festeggiato con una tradizionalissima sfida fra Celibi e Ammogliati, squadre composte da giocatori del paese. L’inaugurazione ha avuto luogo il 10 settembre 1978. Alle ore 14:00 le due formazioni sono scese in campo in una splendida domenica quale appuntamento conclusivo di tre giorni di festeggiamenti. Il calcio d’inizio della partita è stato dato dall’assessore comunale Gaspardo, il quale, nel discorso inaugurale, ha sottolineato la generosità degli abitanti di Domanins che hanno prestato il lavoro e la collaborazione a titolo puramente gratuito. Il Comune di San Giorgio è intervenuto soltanto per pagare le spese del materiale impiegato.

Fino al 1980, Domanins ha solo le formazioni giovanili. Negli anni successivi nasce l’Associazione Calcio Domanins con la Prima Squadra iscritta al campionato dilettantistico di Terza Categoria. L’ A.C. Domanins ha ottenuto i risultati di maggior rilievo nella seconda metà degli anni ottanta, grazie ai successi ottenuti dalle formazioni giovanili Esordienti, Giovanissimi e Allievi vincitrici di più campionati provinciali, e allenate per la maggior parte dal compaesano Flavio De Candido. Le squadre comprendono tutti i ragazzi del comune di San Giorgio, diventando in quegli anni una delle migliori realtà calcistiche della provincia di Pordenone, le quali formeranno poi l’ossatura della rappresentativa comunale nella prima edizione del Torneo Giovanile Internazionale dell’Amicizia, svoltasi nel 1988, nei tre campi sportivi comunali.


Inoltre, nella stagione 1989-90 l’A.C. Domanins consegue la promozione al campionato di Seconda Categoria. L’associazione sportiva di Domanins chiude la propria attività nel 1992 fondendosi con la società sportiva comunale di San Giorgio della Richinvelda, diventando l’A.S. Domanins-Richinvelda. Negli anni ottanta il campo da calcio di Domanins divenne ancora di più il centro vitale del paese. Nell’attiguo boschetto, separato da una carreggiata campestre fatta di sassi e da un piccolo prato idoneo per i parcheggi delle vetture, si svolgeva, l’ultima domenica di luglio la festa annuale dei donatori di sangue e le altre loro iniziative.

Abbiamo già incontrato le testimonianze sul territorio di questo sodalizio nelle zone del paese da noi visitate. I donatori di sangue a Domanins hanno costruito un Monumento (2013) e a loro è stata intestata una via del paese (2020). Nel 2018, in occasione del cinquantesimo anniversario di fondazione l’amministrazione comunale ha consegnato la medaglia d’oro all’associazione per il traguardo raggiunto con più di seimila donazioni di sangue.
La pratica della donazione periodica del sangue da impiegare negli interventi chirurgici e per bloccare le emorragie massive ha avuto il suo inizio in Italia a partire dagli anni venti del secolo scorso, con la nascita dell’Associazione Volontari Italiani del Sangue. Le moderne trasfusioni di sangue in Italia nacquero durante il secondo conflitto mondiale. I tempi e le condizioni difficili della guerra resero la donazione del proprio sangue una necessità vitale. La fine della guerra non impedì alla tematica sulle trasfusioni, di sopravvivere nei propositi e negli ideali che animarono parte del personale medico e di gruppi di volontari.
Nel 1927 è nata dell’A.V.I.S. (Associazione Volontari Italiani del Sangue), come già accennato; nel 1945 è sorta in seno alla Croce Rossa Italiana la sezione dei Donatori di Sangue C.R.I.; nel 1959 a Torino si costituisce la F.I.D.A.S. (Federazione Italiana Associazioni Donatori di Sangue) che raggruppa tutte le realtà locali autonome che manifestavano la volontà di separarsi dalla nazionale e centralizzata A.V.I.S.; nel 1963 fu la volta dei donatori riuniti nella FRATRES.
Nel 1949, in Friuli presso l’Ospedale di Udine, fu organizzata la prima raccolta del sangue in flaconi. Sul finire degli anni Cinquanta furono moltiplicati gli sforzi per incrementare il numero di donazioni. Furono lanciate campagne di informazione e propaganda, cultura e persuasione, con l’obiettivo di spiegare alla popolazione quali fossero gli effetti benefici, sociali ed umani della donazione del prezioso sangue a chi ne avesse bisogno, garantendo salute fisica e gratificazione d’animo, superando i pregiudizi del passato ancora condivisi oggi in gran parte dall’opinione pubblica. Con l’ultimo decennio del secolo scorso ha preso corpo la donazione del plasma, delle piastrine e di altri emocomponenti attraverso la tecnica dell’aferesi. La plasmaferesi produttiva separa il plasma e gli emocomponenti dalla parte globulare del sangue. Il prezioso materiale viene raccolto e utilizzato per la produzione di medicinali.
Nel Friuli-Venezia Giulia, si costituì a Udine, il 22 ottobre 1958, l’Associazione Friulana Donatori di Sangue (A.F.D.S.) per opera di un gruppo di volontari guidati da don Antonio Volpe. Nel corso degli anni sessanta prende corpo nella Destra Tagliamento il Circondario facente capo a Spilimbergo. La città del mosaico era il centro più attivo e propulsore, così come a Sacile. In questi due centri cittadini i gruppi di donatori si costituirono rispettivamente nel 1957 e nel 1956. Dal 1965 divenne ufficialmente A.F.D.S. Circondario di Pordenone dal nome della città più grande e importante del territorio. Tre anni dopo, Pordenone diventa Ente Provincia autonomo da Udine, così, nel 1972, l’A.F.D.S. da raggruppamento circondariale diventa ufficialmente un’associazione autonoma l’A.F.D.S. Provincia di Pordenone con un proprio statuto scritto (8 luglio) e con sede a Spilimbergo.
I donatori volontari di Domanins si iscrissero dapprima con la sezione locale di Spilimbergo che comprendeva, agli inizi degli anni sessanta, tutti i paesi limitrofi e del proprio distretto storico e amministrativo. Il 24 maggio 1963 i donatori del comune di San Giorgio della Richinvelda istituiscono una sezione autonoma comprendente tutte e sette le frazioni.

26 maggio 1963
Nell’estate del 1967 il capogruppo dei donatori di Domanins Sante Lenarduzzi presenta alla sede provinciale una formale richiesta di istituzione di una sezione autonoma nella frazione per meglio attendere alle necessità dei propri donatori. La richiesta venne accolta dalla sede spilimberghese premiando lo zelo del gruppo di Domanins che era “attivissimo”. Così il 13 dicembre dello stesso anno si riuniva l’assemblea dei soci di Domanins per eleggere il nuovo consiglio direttivo. Il battesimo ufficiale della nuova sezione A.F.D.S. di Domanins avvenne il 21 gennaio 1968 con cerimonia solenne e benedizione del labaro. Da allora l’Associazione dei donatori di sangue divenne la protagonista della vita sociale di Domanins. Tutti i sodalizi dell’A.F.D.S. regionale avevano la consuetudine di celebrare la propria Giornata o Festa del donatore in un determinato giorno dell’anno. In quell’occasione, davanti agli altri sodalizi A.F.D.S. – chiamati consorelle – ogni sezione era solita pronunciare la propria relazione morale dell’anno precedente, comunicando il numero delle donazioni totalizzate, i donatori benemeriti e fare l’elenco delle iniziative sociali e ludiche organizzate.

Ogni giornata era caratterizzata dalla celebrazione della S. Messa quale evento iniziale e centrale, con deposizione di una corona d’alloro ai donatori defunti con la processione dei labari delle varie sezioni consorelle e amiche e con la partecipazione delle autorità. Al termine della fase celebrativa, la giornata proseguiva con un pranzo sociale o un rinfresco e da momenti di convivialità con giochi o intrattenimenti di diverso tipo.
A Domanins, fino al 1972 la Giornata del donatore consisteva in una celebrazione religiosa con deposizione della corona portata da quattro ragazze in costume tradizionale friulano. Il presidente fondatore Sante Lenarduzzi pronunciava il discorso ufficiale al microfono assieme alle autorità: il parroco don Gallo Moschetta, il sindaco comm. Lorenzo Ronzani, il presidente dell’A.F.D.S. Circondariale di Spilimbergo cav. Evaristo Cominotto. Seguiva sempre il pranzo comunitario alla Trattoria “La Nana”.
Nel 1973, la Giornata del donatore si svolse nel mese di maggio, mentre il 24 giugno il sodalizio organizzò una scampagnata per i donatori e gli amici con pranzo e giochi vari. Abbiamo menzionato alla scampagnata dei donatori all’inizio del viaggio e che essa si teneva nelle Cjampagnatis. In tale luogo la sezione A.F.D.S. preparò con cura la propria “Festa del donatore” fino al 1976. Nel 1977 fu scelta la zona del Frabosc, il “Buschit dal Nini” e così fu anche per il 1978 e 1979.
Dal 1980, la festa dei donatori di sangue di Domanins cominciò a svolgersi nel boschetto adiacente al campo sportivo e come data prefissata fu scelta l’ultima domenica del mese di luglio. Da quel giorno in poi la festa si è tenuta fino a oggi, saltando solo per il 2020 e 2021, gli anni della pandemia Covid-19. La festa era caratterizzata dalla S. Messa svolta nel boschetto e dal pranzo a base di porchetta. Gli invitati, autorità e sezioni consorelle, si davano appuntamento in piazza S. Michele dietro la chiesa, davanti alla casa Lenarduzzi. Si formava il corteo dei labari con alla testa la corona d’alloro portata dalle furlane e al crocifisso. Seguivano il gonfalone comunale con il Tricolore Italiano e a volte anche la bandiera dell’Unione Europea. Dietro di esse i labari delle associazioni dei donatori di sangue dell’A.F.D.S. Provinciale e di altre sezioni amiche. La corona d’alloro veniva deposta davanti al Monumento ai caduti con benedizione del parroco e accompagnata da una banda musicale.

Il corteo si dirigeva poi verso il campo sportivo dove veniva celebrata la funzione religiosa. Al suo termine avevano luogo i discorsi ufficiali del presidente di sezione, del sindaco, del presidente provinciale dell’associazione e di altre autorità o personalità invitate. Sotto le frasche del boschetto si consumava il pranzo a base di porchetta con libero accesso a tutti. Il pomeriggio e la sera erano rallegrati da giochi di società di più vario tipo: la tombola, il gioco del fazzoletto, partite di calcio e di volley, la briscola e la lotteria, manifestazioni cinofile, equine o con gli elicotteri. Ad organizzare i giochi di società nel corso delle varie edizioni c’era il gruppo dei boy scout di Domanins.

Le bande musicali che si alternarono alla cerimonia sono state la Società Filarmonica di Valvasone, la Banda Musicale A. Cesaratto di Vivaro, la Società Filarmonica di Valeriano. Nelle occasioni più memorabili sono state invitate le fanfare dei bersaglieri, militari e civili, che dinnanzi al Monumento ai caduti suonavano l’Inno nazionale o il Piave. Questa è stata “la tradizionale Porchetta nel boschetto del campo sportivo” immortalata in tutti gli anni da un manifesto con una simpatica maialina osé disegnata dal maestro Genesio Valentino Romano. E’ stato un segnato fortunato del destino che nell’ultima domenica di luglio dal 1980 sino a 2019 il tempo abbia sempre aiutato i volenterosi donatori che hanno organizzato questa festa speciale.

I donatori di Domanins si recavano periodicamente al centro trasfusionale (per la maggiore quello di Spilimbergo) e le facevano in gruppo anche con amici. Dopo la bistecca e il caffè post-donazione i donatori sodali se ne andavano a pranzo approfittando di una giornata di riposo lavorativo.

L’A.F.D.S. Domanins ha organizzato da sempre e puntualmente cene e gite sociali; la cena era fissata nel secondo sabato di Carnevale. Dal 1977 organizzò il Babbo Natale portando i doni porta a porta per le case di Domanins con la collaborazione dell’Associazione Calcio Domanins. Ha collaborato alla Festa del Santo Patrono; il Natale con l’albero; con il presepe e con il Babbo; le altre iniziative a carattere sociale e umanitario come la costruzione del Monumento all’Emigrante; le varie pubblicazioni a cui hanno partecipato o contribuito; gli innumerevoli contributi economici a chi ne ha avuto bisogno; gli incontri a carattere informativo e culturale. Dal 1993 al 2005, il sabato prima della Porchetta si teneva la Lucciolata per le vie del paese a scopo benefico per l’associazione Via di Natale. La manifestazione è stata ripresa il 9 luglio 2022. Il 10 luglio 2022 si tenne la prima edizione della Marcia dal Buschit, camminata non competitiva con partenza e arrivo nel boschetto del campo sportivo. L’associazione giunse così a compiere il cinquantesimo anniversario con più di seimila donazioni alle spalle, con una medaglia d’oro e con molte vite salvate.
La via dell’emigrazione e la memoria della terra natale: il Monumento all’emigrante
Ritorniamo ora sui nostri passi e immettiamoci di nuovo sulla via Belvedere e proseguiamo verso nord. Trecento metri circa più avanti troviamo alla nostra destra un’altra strada laterale: via S. Valentino. Anticamente, questa piccola via che conduceva ai campi si chiamava via Crai. La parola “Crai” ha un etimo incerto di origine slava. In questa strada abitava una famiglia (o più) Lenarduzzi la quale prese il soprannome “Crai”. Tale nomignolo viene usato tuttora e si riferisce alle famiglie Lenarduzzi abitanti nella frazione di Pozzo situata ad est del capoluogo comunale. Con il passare dei secoli fu ribattezzata con il nome del santo più venerato dai parrocchiani assieme a S. Michele Arcangelo. S. Valentino aveva una propria festa organizzata dall’omonima confraternita. La festa di S. Valentino a Domanins era profondamente sentita ed era conosciuta da tutti nel circondario. Per i giovani era la festa dei “Luins e Naransis” e nella piazza del paese si appostavano tantissimi ambulanti per la vendita di arance, lupini, noci, liquirizia, castagne secche, mandorlato e zucchero filato.
Più avanti sulla via Belvedere, a un centinaio di metri, incontriamo una strada laterale a sinistra la via Cianeis. Anch’essa finisce nei campi e nei prati e, dopo un paio di curve, la strada diventa la via Angoris che fa parte della frazione Rauscedo. La strada prende il nome dai canneti “cianeis” che crescevano, e crescono tuttora, numerosi nei prati e nei campi attigui. La “Angoris” invece prende il nome dall’umidità della zona. “Canneti” deriva da “rausea” indicando la zona umida tipica di zone attigue ai torrenti da cui il nome del paese “Rauscedo”. Percorrendo la via Angoris fino in fondo si giunge alla via Borgo Meduna ossia al Borgo di Rauscedo a poche centinaia di metri a ovest – ossia più “in giù” – della chiesa parrocchiale di S. Maria e S. Giuseppe.
Ancora un centinaio di metri più avanti e si raggiunge il centro della località Claut formato da un largo o piazzetta delimitata da un ruscello e dall’incrocio della via Belvedere con l’altra strada che conduce a Rauscedo: via della Pace. A lato della piazzetta, a sinistra, si trova l’ufficio postale di Domanins e Rauscedo e, prima di esso, si affaccia alla via Belvedere una singolare opera in marmo bianco. Essa è il Monumento all’Emigrante e al Viandante realizzato tra il 1984 e il 1986.

Torniamo ora più indietro e guardiamo quella casa che fa angolo tra via Belvedere e via S. Valentino. E’ una piccola abitazione a pianta quadrata e a due piani. Quella fu la casa natale dei genitori di Sergio Marchi politico e ambasciatore canadese. Chi era Sergio Marchi? In questa casa nacque Ottavio Marchi nel 1927. Nel 1950, Ottavio emigrò in Argentina con la moglie Luisa D’Agostini di due anni più giovane. Nel 1956 a Buenos Aires venne alla luce Sergio. Nel 1958 la famiglia emigrò in Canada stabilendosi a Toronto. Come tutte le famiglie di emigranti fecero sacrifici enormi per permettersi una vita dignitosa. Impiantarono una fabbrica di stampi con la quale riuscirono a mantenere gli studi di Sergio e del secondo figlio Giorgio.
Sergio si laureò in Urbanistica e si dedicò sin da subito alla politica. Nel 1982 fu eletto consigliere comunale a North York e nel 1984 divenne membro del parlamento per il Partito Liberale rieletto poi nel 1988. Nel 1993 s’instaurò in Canada un governo dei liberali. Il 3 novembre, il primo ministro Jean Chrétien nominò Sergio Marchi ministro della Cittadinanza e dell’Immigrazione. In seguito assunse gli incarichi di ministro dell’Ambiente e poi, nel 1997, ministro del Commercio Internazionale. Si occupò di politica fino all’abbandono volontario della carriera avvenuto nel 1999.
Negli anni successivi si dedicò alla carriera diplomatica e fu nominato ambasciatore canadese alla World Trade Organization, per le agenzie delle Nazioni Unite a Ginevra. Dopo aver abbandonato il mondo diplomatico, nel febbraio 2006, Marchi iniziò a collaborare con lo studio legale di Lang Michener LLP di Toronto come consulente. In seguito diventò presidente del Business Council Canada Cina e presidente della Canadian Coalition per i servizi. Ha in seguito fondato il Gruppo Marchi a Ginevra. Nel febbraio 2015, Sergio Marchi, ritornato in Canada, è stato nominato Presidente di Canadian Electricity Association, con sede a Ottawa.
Da ministro, Sergio Marchi fece visita qui, a Domanins, nel paese delle sue origini. Il 15 ottobre 1994 fu accolto dalla popolazione nelle vecchie scuole elementari del paese A. Gabelli. Alle ore 15:00, in suo onore suonarono le campane. Fu allestita una cerimonia in suo onore con un’esibizione dell’orchestra Beato Bertando di Aquileia di San Giorgio e della Corale di Rauscedo.

Ma ci fu una precedente occasione nella quale Sergio Marchi fece visita a Domanins. Fu nel 1985 e fu ospite della Fiesta dal’emigrant che si teneva ogni anno nel comune di San Giorgio e in quel lustro si svolse nella frazione di Aurava. Presenti alla serata furono, oltre alle autorità quale il sindaco comm. Lorenzo Ronzani, il Ottavio Valerio presidente dell’Ente Friuli nel mondo di Udine e Sante Lenarduzzi presidente dei donatori di sangue A.F.D.S. di Domanins. Questo incontro e festeggiamento fu un momento conviviale molto piacevole in una calda serata estiva che scivolò via serena e allegra. In questa edizione della festa dell’emigrante si celebrò assieme agli emigranti convenuti la costruzione nell’anno prima del Monumento all’Emigrante a Domanins, il primo nella Destra Tagliamento.

La vicenda umana dell’onorevole Sergio Marchi è emblematica di un uomo e di una famiglia che emigrata in terre lontane ha saputo trovare un lavoro e un’opportunità di promozione sociale valorizzando le qualità e la capacità proprie di uomini e donne, di italiani e friulani, senza perciò dimenticare le proprie origini, la cultura e le tradizioni della loro terra natia: il Friuli. A Domanins e a San Giorgio della Richinvelda furono ricordati tutti gli emigranti anche coloro che non raggiunsero ruoli o cariche importanti e prestigiose come quella di Sergio Marchi. Culmine di questa memoria e sensibilità fu appunto l’opera che appare al turista che giunge nella piazza del Claut.
Il Monumento all’Emigrante e al Viandante
L’opera, situata in via Belvedere, sul terreno di un’abitazione privata, ebbe il suo definitivo battesimo il 14 agosto 1986. Quel giorno decine di persone si riunirono sullo spiazzo antistante il Monumento per partecipare alla celebrazione solenne. Era giovedì, e l’afoso clima estivo non impedì l’afflusso di tanti ammiratori sul posto: uomini, donne, anziani, i giovani di Domanins e i giovani dei paesi vicini, assieme a molte autorità civili e a personalità del mondo politico locale. La cerimonia cominciò alle 17:30, con una Santa Messa officiata dal parroco don Giuseppe Liut. La celebrazione si svolse con la speciale presenza del Vescovo Monsignor Abramo Freschi che, circondato da vari sacerdoti della zona, benedì l’opera scultorea e pronunciò l’omelia. Riservò parole di elogio ai realizzatori, e, a tutti quelli che hanno contribuito alla conservazione della memoria dell’emigrante, e della storia tormentata dell’emigrazione friulana.

Perché questi furono, infatti, i motivi e le finalità che ne ispirarono la costruzione: ricordare e raccontare la storia di un fenomeno sociale che ha caratterizzato la quasi totalità delle famiglie di Domanins, all’interno di un’interpretazione assolutamente religiosa, cristiana.
Il Monumento è composto da un capitello, collocato all’interno di un’area pavimentata, e, la statua della Vergine Madre – Madonna della Pace e dell’Assunzione che abbraccia l’Umanità. L’opera fu il risultato di tre anni di lavoro e di progetto. L’iniziativa partì da Sante Lenarduzzi, presidente dell’Associazione dei Donatori di Sangue del paese. L’idea nacque a Santìn nell’inverno tra il 1982 e il 1983. Per conoscerne i motivi originari bisogna, però, andare ancora più indietro nel tempo. Santìn, infatti, volle esaudire il desiderio del vecchio parroco don Gallo Moschetta. Prima della sua morte (avvenuta nel 1974), il grande sacerdote voleva che fosse costruito “un capitello, sacro e votivo, dedicato alla Madonna e al Viandante che, stanco e assetato, ivi trova ristoro”. Secondo il “pievano di ferro”, la Madonna nel ’45 avrebbe risparmiato Domanins dalle violenze distruttive della guerra, grazie alle preghiere e ai suoi ex voto. Don Gallo volle, inoltre, che l’opera fosse collocata “…nella zona tra Domanins e Rauscedo”. Il presidente dei Donatori pensò che quello era il momento propizio. Il “pustìn” confidò la sua idea al Consiglio Direttivo di Sezione e a don Liut. In seguito alla sua proposta, si formò un comitato parrocchiale che si pose l’obiettivo di realizzare l’opera. “Il Monumento sarà costruito con un’effigie sacra della Vergine, e collocato in un’abitazione di via Belvedere, vicino all’incrocio con via della Pace. Il posto ideale dove finisce l’abitato e comincia la campagna.”
Il comitato incaricò Ettore Polesel, giovane architetto di Sacile. Polesel, a quell’epoca, lavorava per la nostra Parrocchia, ed era conosciuto nel vicinato per aver svolto lavori di ristrutturazione e di recupero edilizio dopo il terremoto del ’76. Il giovane architetto, dopo una riunione con i componenti del comitato, stese una bozza del progetto. Era l’aprile del 1983 e Polesel, nella sua creazione originale, pensò di estendere la figura e il concetto del viandante con quella dell’emigrante, più storicizzata e adeguata al paese.

Per la composizione della statua della Santa Madre, fu scelto Edo Janich, noto artista originario del territorio di San Giorgio della Richinvelda, e, all’epoca, residente a Valvasone. Janich rappresentò indubbiamente una firma prestigiosa. Nel giro di pochi anni acquistò una fama a livello mondiale, nell’arte della scultura e dell’incisione. Janich accettò la proposta fattagli dai parrocchiani di Domanins, e, dopo aver studiato la bozza di Polesel, cominciò a lavorare, in piena autonomia di scelte e di tempi. La storia dei lavori si può suddividere in tre fasi.

Come primo passo, bisognava erigere il capitello. Dal progetto fino all’inizio effettivo dei lavori passò però un intero anno. La prima pietra fu posta nel maggio del 1984. Polesel trovò un nutrito gruppo di operai volenterosi pronti a tradurre in realtà la sua idea. I principali lavoratori furono quattro o cinque, aiutati da una ventina di collaboratori, fra adulti e giovani. I lavori procedettero con ritmo spedito, tantoché il capitello e il muro esterno furono completati in meno di tre mesi. Polesel, allora, convocò una commissione, proveniente dall’Austria, al fine di esprimere un parere tecnico. Gli architetti rimasero molto soddisfatti dell’opera e impressionati dalla “sapiente e ingegnosa struttura dei casseri” creata per erigere l’armatura. L’approvazione della commissione diede, ufficiosamente, l’avallo. In agosto, perciò, il Monumento ebbe un suo primo e ufficiale “battesimo”. Ci fu una piccola cerimonia di benedizione officiata da don Liut, e la deposizione di una pergamena all’interno di un’urna interrata sotto il sacello. La pergamena conteneva l’elenco dei nomi di coloro che hanno lavorato al Monumento. Fu posta quel giorno dal sindaco Cav. Lorenzo Ronzani, col proposito di essere riaperta dopo cent’anni.

Dopo questa prima inaugurazione, i lavori proseguirono. Il Monumento aveva ancora bisogno di qualche particolare e di qualche piccola rifinitura. L’opera sacra necessitava di vari elementi che erano indispensabili per esprimerne il significato: il capitello; il muro; il pavimento; la panca e le pietre con i sassi e con la croce; le aiuole con le piante. I volontari di Domanins aspettavano nuovi aiuti e contributi, e andarono avanti con proprie arti e strumenti per un altro anno ancora, fino ad arrivare fino all’autunno del 1985. In novembre, tutte le armature erano ormai terminate, mancava solo la statua della Vergine. Janich aveva bisogno ancora di qualche mese per approntare l’effigie sacra.

L’ultima fase fu quella dell’attesa del capolavoro dell’artista richinveldese. L’appuntamento fu quindi rinviato al 1986, al 14 agosto. La Madonna venne ultimata solo qualche giorno prima e inserita fra le pareti del sacello. Il gran giorno finalmente arrivò. Il Monumento all’Emigrante fu definitivamente completato. Durante la cerimonia, i due artisti presentarono l’opera con una ricca spiegazione. Il Monumento all’Emigrante con la statua della Madonna sono stati realizzati in una forma “moderna o postmoderna”. L’aspetto e il significato sono ermetici e indubbiamente incomprensibili ai più.
Il Monumento ha la medesima funzione di un capitello o di una chiesetta di tipo tradizionale. Il suo luogo, ove l’abitato finisce e comincia la campagna, permette al viandante di riposarsi alla fonte spirituale che la Santa Madre gli offre. La vicinanza con il verde e con la vegetazione, che crescono nelle aiuole, sottolinea la continuità della vita oltre la morte. E vita, morte e rinascita sono il significato dell’opera. La lettura del Monumento parte dal muro che simboleggia la vita terrena.
Il muro è interrotto da numerose fratture e sporgenze, così come nel circolo dell’esistenza l’uomo incontra le innumerevoli difficoltà che lo accompagnano nella vita in tutte le sue fasi, dall’infanzia, passando per l’adolescenza, la giovinezza e la lunga maturità fino alla vecchiaia e morte. Un vissuto costellato di sconfitte e di dolori, come di vittorie e di gioie. L’esistenza di ogni individuo rassomiglia a quella di un viandante, e, nello specifico, a quella dell’emigrante, ossia al suo continuo peregrinare lontano dalla propria casa e dalla propria famiglia, in cerca di lavoro e fortuna. Il muro percorre lo spazio sacro e delimita il pavimento composto da tanti cerchi concentrici di piccole pietre, sapientemente distribuite a mosaico.
I cerchi rappresentano i vari mondi dell’emigrazione: le Americhe; l’Africa; l’Australia; l’Europa dell’Austria-Ungheria e dei paesi germanici, della Russia, della Francia e della Romania. La vita dell’emigrante passa attraverso le terre fino a fare, un giorno, ritorno a casa. Alla fine del muro c’è il termine. Nella fase della vecchiaia, l’uomo si siede su una panca, e, guardando a terra il pavimento, gli si presentano davanti due grosse pietre. La prima pietra è cava e contiene i sassi del Tagliamento, ossia gli oggetti della propria terra che ritrova alla fine del viaggio. La seconda è chiusa, e su di essa è incisa una grande croce, che gli indica il nuovo viaggio da intraprendere. I due massi stimolano la riflessione dell’uomo-emigrante. Entrambi racchiudono il significato della vita che gli apparirà in tutta la sua chiarezza solo osservando l’intero percorso compiuto. E nella seconda parte della vecchiaia, più vicina alla fine della vita, dove l’elemento orizzontale dell’esistenza terrena si congiunge con la linea verticale del capitello, che conduce la vita verso la trascendenza.
La linea del muro alla fine della vecchiaia s’interrompe, e quindi, non continua con una rinascita terrena, ma prosegue verso l’alto, attraverso il capitello, elemento fondamentale, conclusivo e chiarificatore. All’interno di esso vi è la Madre, raffigurata mentre abbraccia il mondo rappresentato da un incavo circolare. Difronte a Lei, il Bambin Gesù. È Lei che parla all’uomo-emigrante. L’abbraccio ultraterreno della Madonna è la sola giustificazione dell’esistenza, l’unico scopo ed eterna consolazione dell’emigrante e dell’umanità. In questo punto, inizio e fine coincidono su un piano più alto. Questa è la spiegazione del Monumento.

Le parole degli artisti risuonarono nella folla presente in quel pomeriggio di agosto. A suggello del capolavoro, fu incisa la seguente strofa sulla parete interna del capitello:
“Ave, o Maria, Arca dell’Alleanza che proteggi l’Emigrante e il Viandante. 14 agosto 1986”.
Il folto pubblico plaudì all’opera di Polesel, di Janich e dei volontari di Domanins. La giornata celebrativa fu allietata dalla fanfara Bersaglieri di Tauriano che, ospiti della giornata, intonarono l’inno di Mameli, seguiti da un fragoroso applauso del pubblico presente. Presenti anche i giovani del Gruppo Scout di Domanins e della Corale di Rauscedo. Successivamente, ci furono gli interventi delle altre personalità presenti alla cerimonia. Presero la parola il commendator Tommaso Boer, dell’Ente friulano per l’assistenza sociale e culturale degli emigranti di Pordenone (EFASCE), e il Cavalier Renato Appi dell’Ente Friuli nel mondo. Il sindaco Ronzani, inoltre, consegnò un attestato di riconoscenza ad un emigrante del Comune di San Giorgio che aveva fatto ritorno nella nostra terra dopo 37 anni di assenza. Al termine della funzione religiosa fu posta la corona d’alloro al monumento ai caduti, e, subito dopo fu inaugurato il nuovo edificio che avrebbe ospitato le opere parrocchiali, nel quale Edo Janich espose, proprio in quel pomeriggio, la mostra delle sue opere, illustrata dal professor Sandro Serena.
La giornata di festa continuò, fino a tarda sera, nei locali delle scuole comunali di San Giorgio. Cena comunitaria ed esibizioni musicali conclusero i festeggiamenti. Infine, una bella foto ricordo per immortalare i quattro maggiori protagonisti del Monumento. Il Monumento fu un vero fiore all’occhiello per Domanins e per i suoi emigranti nel mondo. Collocato in bella posizione sulla strada provinciale del Sile che congiunge Pordenone a Spilimbergo, esso è stato un’attrazione singolare e apprezzata per il gusto e la sensibilità dell’epoca. Nel giorno dell’inaugurazione fu divulgato un piccolo libro curato dai compaesani Vannes Chiandotto e Luigi Luchini, e dal giornalista friulano Licio Damiani.
Un piccolo ricordo di storia del paese e dell’emigrazione, con un’esposizione critica e architettonica sul tema e sul significato del Monumento. Il nostro Monumento ha l’onore di essere stato, in provincia, il primo dedicato all’Emigrante in ordine di tempo. In anni più recenti, ne furono innalzati altri con simile valenza simbolica a Cordenons, Azzano Decimo, Fratta di Caneva, San Quirino. Negli anni Duemila, il Monumento – costruito su un terreno privato – allora appartenente simbolicamente al paese, fu ceduto definitivamente alla Parrocchia. Negli ultimi tempi è stato oggetto di continue cure e abbellimenti da parte, o della Parrocchia, o della Sezione Donatori di Sangue, o da parte di volontari del paese.
Nel 2013 fu collocata una targa didascalica con la spiegazione del significato di tutte le parti dell’opera.
Nel febbraio 2021 il Monumento è stato restaurato dopo trentacinque anni dall’inaugurazione.

Ritorniamo ora nel centro di Domanins per parlare di una figura illustre del Novecento: il parroco don Baldassare Gallo Moschetta.